Il potere delle due chiavi

Con un’allegoria splendida, Dante descrive la sublimità del potere liberatorio della confessione cristiana. Quello che solo la vera Chiesa di Cristo possiede e può amministrare

Dante [Dante Alighieri (1265-1321)] si trova alle soglie del Purgatorio – siamo nel canto IX – ivi portato, dopo essersi addormentato nella “valletta fiorita” dell’Antipurgatorio, da santa Lucia, come gli ha rivelato Virgilio [Publio Virgilio Marone ( 70 a.C.-19 d.C.)], da Dante sognata in figura di aquila (cfr. il mio Un’aquila dalle penne d’oro).

Avvicinatosi a quella che gli era sembrata una fenditura nella roccia, il Poeta scopre invece che si tratta di una porta con tre gradini al di sotto e che su quello più alto sta un angelo portiere con un volto così luminoso e una spada così lucente che Dante non riesce a fissarlo. La spada rappresenta la giustizia di cui ci si serve per assolvere o per condannare: l’arma è nuda per indicare la limpidezza di quella virtù ed è luminosa per indicare lo splendore della verità che la ispira. Anche per quel che seguirà, il simbolismo in questo nono canto potrebbe apparire a prima vista eccessivo, ma si deve tenere presente che, per gli uomini medioevali – e non solo –, certe realtà spirituali e metafisiche potevano e possono essere comprese più attraverso i simboli che non con la cruda materialità di cose, gesti ed eventi. Mettersi in questa ottica significa dunque apprezzare lo sforzo di Dante che, proprio in questo canto, ai versi 70-72, rivolge un appello al lettore, ricordandogli che d’ora in poi utilizzerà più “arte”, ossia tutti gli artifici retorici adatti a una cantica, il Purgatorio, di tono più elevato rispetto all’Inferno.

Dopo che Virgilio ha dato all’angelo l’assicurazione di essere lì assieme a Dante per volontà di una donna del Cielo, cioè santa Lucia, i due uomini si avvicinano ai gradini. Qui comincia l’allegoria.

Il primo gradino è di marmo bianco e tanto lucido da potercisi specchiare. Secondo l’interpretazione più comunemente accettata, i tre gradini rappresentano i tre momenti fondamentali del sacramento della confessione. Il primo è la contritio cordis, il momento più noto come esame di coscienza. L’anima fa pulizia dentro di sé, elimina ombre e macchie, e torna limpida come una superficie a specchio. Il secondo gradino è di colore scuro e intagliato nella pietra ruvida e screpolata, piena di fenditure in ogni direzione. Rappresenta la confessio oris, il momento in cui il peccatore, non solo interiormente, ma anche esteriormente, con le parole, mette a nudo se stesso vergognandosi – la difficoltà del farlo è segnalata dalla ruvidezza della pietra – e rivelando i fondi oscuri e aspri della propria vita di peccato. Le fenditure, poi, rappresentano l’intersecarsi dei vari peccati e la necessità di spezzare la durezza di cuore che a essi ha indotto.

Infine l’ultimo gradino. Dice Dante che «[…] porfido mi parea, sì fiammeggiante/ come sangue che fuor di vena spiccia» (vv. 101-102). È il momento che i teologi definiscono satisfactio operis, la remissione dei peccati attraverso le opere, cioè l’impegno del peccatore assolto a compiere un sacrificio morale o materiale che valga come soddisfacimento del male commesso. Il rosso indica l’ardore della carità e la durezza della pietra il fermo proposito di non peccare più. Sopra quest’ultimo gradino tiene i piedi l’angelo portiere seduto su una soglia che a Dante sembra di diamante, simbolo di costanza: quella costanza che sarà necessaria al Poeta, al pari delle anime che incontrerà, per portare a termine la purificazione.

Dopo che Dante si è battuto il petto tre volte, l’angelo gl’incide sulla fronte, con la punta della spada, sette “P” rappresentanti gli altrettanti peccati – o vizi – “capitali”: quelli che si sconteranno nelle sette cornici del Purgatorio e che, a ogni purificazione, l’una dopo l’altra, scompariranno dalla fronte del Poeta.

Finalmente l’Angelo apre la porta con due chiavi, l’una d’oro e l’altra d’argento. La prima, la chiave d’oro, rappresenta il potere di “legare” e di “sciogliere” dato da Cristo a Pietro e quindi alla Chiesa Cattolica (cfr. Mt 16, 18–19). Dice l’angelo rivolto a Dante: «Da Pier le tegno; e dissemi ch’ i’ erri / anzi ad aprir ch’a tenerla serrata, / pur che la gente a’ piedi mi s’atterri» (vv. 127–129). Tuttavia è la seconda chiave, quella d’argento, che, grazie alla sapienza del confessore, scioglie il nodo del peccato. Non è un caso che le due chiavi incrociate costituiscano da sempre l’insegna del Papato. La porta si apre e l’angelo invita a non voltarsi indietro. Appena entrato in compagnia di Virgilio, a Dante sembra di sentir cantare un Te Deum laudamus, «[…] in voce mista al dolce suono» (v.141). È cominciato il percorso della purificazione.

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