Manuele Secondo Paleologo, l’imperatore letterato bizantino citato a Ratisbona da Benedetto XVI

Il VII dialogo e la condizione sociale e culturale dei cristiani d’Oriente (1)


di Antonio Antonioni

1 – IL SENSO DI UN DIALOGO

Se tutta la letteratura bizantina è assai poco nota nel mondo occidentale, e molte persone anche abbastanza colte non sanno dire neanche un nome dei suoi autori, negli ultimi anni almeno uno di questi ha fatto eccezione: parlo dell’imperatore  MANUELE II PALEOLOGO, uscito in qualche modo dall’oscurità a causa della citazione di lui fatta nel discorso di Ratisbona, tenuto dal Papa BENEDETTO XVI nel 2006 (2), e sopra tutto per le polemiche che ne seguirono, perché quel discorso, e  particolarmente a causa di quella citazione,  fu frainteso come un attacco all’Islam.

Il luogo citato è tratto dal settimo dei 26 Dialoghi con un musulmano, ben accessibile a noi italiani dall’edizione, uscita l’anno dopo evidentemente sull’onda di quell’attualità (3) (essa riproduce, traducendone in italiano introduzione e note oltre al testo stesso, quella curata nel 1966 per la grande collana Sources chrétiennes dal prete libanese Théodore KHOURY (4), esperto dei rapporti tra la teologia greca e l’Islam). Il sovrano di quel poco che restava dell’impero romano d’oriente, si trovò nel 1390 e nel 1391, in due distinte campagne, al seguito del sultano ottomano Bajazet I, al quale era obbligato a fornire aiuto militare in qualità di vassallo: essendo stato stabilito il vassallaggio da un trattato stipulato nel 1373 dai padri dei due, Giovanni V e Murad I (misero destino del successore di Cesare e di Giustiniano!). Ora in una pausa invernale delle operazioni militari, si trascorreva il tempo libero in dotte discussioni intorno al confronto delle due religioni: poiché l’ospite di Manuele, di cui non è dato il nome ma la nazionalità persiana e la qualifica di mudarris, cioè professore della dottrina islamica, aveva manifestato il desiderio di sentir spiegare la dottrina cristiana da un cristiano competente.

Il dialogo è condotto generalmente in maniera molto civile, cortese e rispettosa, ma quella frase citata dal Papa è senz’altro dura; dice Manuele al suo interlocutore: “Mostrami infatti se da Maometto sia stato istituito qualcosa di nuovo: non vi troverai altro che decreti peggiori [di quelli di Mosè e di Cristo] e disumani, come egli fa quando stabilisce di far progredire tramite la spada (νομοθετῶν διὰ ξίφους χωρεῖν) la fede che egli predicava” (2 c 35-38) (5).

In tale dottrina non ha posto la ragione: ma “agire senza ragione è estraneo a Dio” (τὸ μὴ σὺν λόγῳ ποιεῖν ἀλλότριον Θεοῦ: 3 b 7); e “mentre è necessaria la costrizione per una natura irrazionale, e non si può usare la persuasione, invece l’anima razionale la si persuade senza bisogno né di forza (τὸ πείθειν ψυχὴν λογικήν, οὐ χειρός)  né di flagelli, né di altro che minacci morte”: c 15-18. Il che fa pensare (e direi molto probabile che l’avesse in mente anche l’autore) all’uomo misòlogos (“ostile al discorso”) di Platone, che usa la violenza al posto della persuasione discorsiva (6). Comunque si pone qui decisamente, il basileus, come erede e partecipe di una tradizione metafisica che unisce l’antichità e il cristianesimo. Scrive uno storico della filosofia: “Come dal bene la physis trae la sua partecipazione all’essere, così dal bene il logos riceve la sua partecipazione alla verità. Pensare esattamente non significa ritrarre degli oggetti in rappresentazioni (cosa che fanno anche gli animali), ma collegare nel pensiero principi e conseguenze; ciò però succede ‘nella luce della dimostrazione’ e la sua chiarezza dà testimonianza della pura verità, che trova la sua sede solo nel bene stesso” (7). E condivisione del logos è appunto il dialogos, come risulta chiaramente, fra l’altro,  da quel luogo famoso dove Socrate elogia Fedro come colui che fece nascere innumerevoli discorsi, non solo da sé ma anche (e sopra tutto) negli altri, tra cui Socrate stesso (8): parole che dicono il senso profondo della forma letteraria scelta da Platone e imitata da molti altri tra i quali Manuele II.

La “capacità di cogliere l’intelligibile e la sostanza” già per Aristotele era qualche cosa di divino, e se in noi è in atto talvolta, in Dio sempre (9); i cristiani (10) vi riconosceranno poi il segno della creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio (11). Così è riassunta da un filosofo del secolo scorso una sua assai intricata trattazione dell’argomento: “La distinzione scolastica tra ideae in Deo, ideae in rebus e ideae in mente si fonda originariamente (…) su questa triplice forma del ‘logos’: logos creatore in Dio, logos ontico nelle cose reali, logos ri-creativamente e riproduttivamente produttivo nell’uomo” (12). È chiaro dunque che per una dottrina che dica estraneo a Dio il logos è impossibile una teologia naturale, che è sempre stata affermata dalla Chiesa come presupposto necessario per la Rivelazione (ultimamente dall’enciclica Fides et ratio di GIOVANNI PAOLO II (13)); cf. lo stesso RATZINGER: “se la ragione umana desidera conoscere la verità, se l’uomo è creato per la verità, l’annuncio cristiano fa appello a questa apertura della ragione per entrare nel cuore dell’uomo” (14). Anche in campo morale, condizione della libertà umana è la ragione, che distingue il bene dal male. “Riportare l’uomo al rispetto della ragione, – scrive un altro filosofo del Novecento – aiutarlo ad attuare ciò che è obiettivamente bene ed a fuggire ciò che è obiettivamente male, è fare del dovere non solo un peso comune a tutti ma anche lo ideale punto d’incontro di uomini che vogliono vivere con dignità e nella scambievole stima” (15).

È questo dunque il presupposto del dialogo, che si può fondare solo sulla conoscenza certa di Dio nell’ordine naturale (secondo le note parole di SAN PAOLO, Rom. 1, 20: “invisibilia enim ipsius a creatura mundi per ea quae facta sunt intellecta [νοούμενα] conspiciuntur, sempiterna quoque ejus virtus et divinitas”) (16). E così del dialogo tra Manuele e il Mudarris: reciproco rispetto ma chiarezza e fermezza, non buonismo (17). Al contrario il multiculturalismo moderno è un “dialogo tra svuotati” (dice il filosofo marxista D. FUSARO (18)): hanno rinunciato alla loro identità a vantaggio di chi li vuole omologati, globalizzati. E in generale la modernità esclude il vero dialogo “con ciò che è altro da sé, in quanto nega la relazionalità in termini di intenzionalità alla realtà” (19) e ciò in ossequio al principio d’immanenza (20), per cui il pensiero precede e fonda la realtà. 

2 – I PERSONAGGI

Svolgo adesso alcune considerazioni particolari (21) intorno al  momento storico scelto per questa trattazione: perché proprio esso?  Perché  mi pare molto opportuno per illustrare le condizioni di sottomissione politica in cui si trovò per molti secoli la cristianità orientale (e in parte vi si trova ancora): questo momento è la fine del XIV secolo. 

2 A –  MANUELE E BAJAZET.   Nel  1389   la battaglia del Cossovo apre ai Turchi Ottomani (di religione musulmana) la strada per il dominio di tutta la penisola balcanica: è vinto e ucciso il re di Serbia Lazzaro (venerato poi dal suo popolo come santo ed eroe nazionale); ma cade anche il sultano ottomano Murad I.   

Già sotto questo sultano, e la situazione non cambia sotto il suo successore, il figlio Bajazet I, quel poco che restava dell’impero romano d’Oriente (distrutto nel 1204 dai Crociati e ripristinato nel 1261 ma in via di decadenza irrimediabile, privato delle sue basi economiche, fiscali e militari) era ridotto, come s’è detto, a vassallo degli Ottomani: cioè era obbligato a pagare un tributo e a fornire, ad ogni richiesta, aiuto militare.

   MANUELE II (1350-1425;  regnò  1391-1420: in ultimo infatti si fece monaco lasciando il trono al figlio Giovanni VIII), della dinastia dei Paleologi (1261-1453) ultima dell’impero, fu insieme uomo d’azione, esperto sia di armi sia di intrighi politici (ma le condizioni miserande dello stato non gli permettevano più di tanto) sia studioso eruditissimo, degno erede delle tradizioni letterarie e filosofiche dell’antica Grecia nonché cristiano fervente: scrisse molto, specialmente in materia teologica (22) (non è un caso unico di imperatore letterato: tra i pagani possiamo ricordare Marco Aurelio e Giuliano l’Apostata, tra i cristiani diversi altri).

Nell’inverno 1390-91,  e ancora in quello 1391-92, si trovava con le sue truppe al seguito di Bajazet in Asia Minore (e poiché nel 1391 questi conquistò Filadelfia, che era rimasta l’ultima città bizantina d’Asia (23), è possibile che Manuele si sia trovato a combattere per il sultano… contro se stesso!). Ora nell’obbligata sosta invernale delle operazioni militari (Bajazet era in guerra anche contro i vari signorotti musulmani che si erano spartiti l’antico sultanato dei Turchi Selgiuchidi)  mentre il sultano passava il tempo in battute di caccia di cui era appassionatissimo, Manuele, nonostante i suoi molti impegni per l’alloggio e l’approvvigionamento dei suoi soldati (24), tenne una lunga serie di conversazioni, ad Angora, con un dotto persiano che era anche lui al seguito del sultano: era, come abbiamo detto, un mudarris, cioè maestro della dottrina islamica. Niente meno che una disputa fra le due religioni, sostenuta da quei due autorevoli rappresentanti: tale infatti era anche Manuele, come i suoi predecessori da Costantino I in poi isapostolos, detentore di un potere, per quanto laico, conferito direttamente da Dio; sebbene modestamente dichiarasse al mudarris di essere solo un soldato e non un teologo.

   BAJAZET I (1354 -1403; regnò 1389-1402). La cosa al sultano non poteva interessare di meno: erano ben altri i suoi gusti. Manuele nel prologo di quei dialoghi (ben 26 come s’è detto) sfoga tutta la sua frustrazione di doversi tener sottoposto a quello stolto ignorante che oltre la guerra e la caccia non capiva niente: sino a figurarsi il paradiso come un posto pieno non solo, come dice Maometto, di donnine molto disponibili, ma persino di bellissimi cani da caccia! (25).

   Dopo il tempo del nostro dialogo traversò il Danubio ma fu respinto dai Valacchi; poi voltosi contro il suo vassallo Manuele (26) tenne sotto assedio Costantinopoli per anni, ma le potentissime mura di Teodosio I (ancora oggi esistenti, come le Aureliane di Roma) erano per allora inespugnabili (le sfondò infine con l’artiglieria il pronipote Maometto II nel 1453). Vinse i crociati a Nicopoli, sul Danubio, nel 1396, anche grazie allo scarso accordo tra Ungheresi e Francesi, ma fu travolto nel 1402 presso Angora dall’improvvisa invasione di un altro esercito musulmano, i Turco-mongoli del terribile Tamerlano. Nella sua allegra incoscienza aveva ceduto alla sua gran passione facendosi una bella partita di caccia al cervo il giorno prima della battaglia! L’altro vassallo, Stefano figlio di Lazzaro di Serbia, combatté lealmente per lui  (l’avrebbe fatto probabilmente anche Manuele ma era sotto assedio) e pure vinse la sua parte di battaglia, ma per la sconfitta degli Ottomani dovette ritirarsi, mentre Bajazet fu catturato e morì l’anno dopo a Filomelio in ignominiosa prigionia; quasi ripetendo il triste destino dell’imperatore Valeriano catturato dal re di Persia Sapore e costretto a fargli da servo.

   Furono anni bui per gli Ottomani mentre Manuele respirò: cessato ovviamente l’assedio di Costantinopoli, si inserì accortamente nella lotta tra i figli di Bajazet che si contendevano la successione appoggiando con le sue truppe Maometto I che, riuscito vincitore nel 1413, glie ne fu gratissimo, così da togliere il vassallaggio e anzi dichiararsi, in una lettera tramandataci dallo storico Duca, suo figlio e suddito (27)! Ma ciò non servì che a prolungare di qualche decennio la vita di quel poco che restava dell’impero romano cristiano d’Oriente. Già nel 1421, morto il leale e giusto Maometto I, stimato sia dai Turchi sia dai Greci (28), il figlio Murad II riprese la politica aggressiva.

 Sin dal secolo VII, con la grande espansione araba, era cominciata la sottomissione politica di una parte della cristianità orientale a un padrone estraneo, l’Islam: nel 1453 fu completa, eccettuata la Russia, l’Etiopia e poco altro. Dalla Russia fu ricevuta l’eredità imperiale: Mosca diventava la terza Roma.

   2 B – MANUELE E IL MUDARRIS. Si dirà che il giudizio negativo di Manuele su Bajazet muove da ostilità preconcetta contro l’Islam. Non è così: infatti è tutt’altro il suo atteggiamento verso il dotto persiano; e giudica istruiti e intelligenti anche i due figli di questo, che pure partecipano al dialogo. Con tali interlocutori si può discutere civilmente e condurre ad armi pari, nel pieno rispetto reciproco ma anche in piena chiarezza e fermezza, quella disputa pur così scottante. Niente pregiudizi ideologici (“ma tu sei comunista!” si direbbe oggi, “siete tutti fascisti” ecc. ecc.) ma neanche un insulso buonismo (“accettiamoci così come siamo!” “l’importante è fare un percorso insieme”…) fondato su nient’altro che un comune scetticismo, cioè sul credere che non ci sia la verità o che all’uomo sia impossibile raggiungerla. È proprio un sincero desiderio della verità, non una vana curiosità, che muove il mudarris a chiedere di essere informato della religione cristiana (29). Manuele spera sinceramente di convertirlo e, poiché non ci riesce, ragiona sui possibili impedimenti psicologici (30). Ma il dialogo è fondato su questa comune intenzione della natura umana alla verità e quindi a Dio: è perché questi “è tutto in tutti causalmente, senza essere essenzialmente nulla delle cose create, che in tutto ciò che si conosce nella realtà, sia coll’intelletto che col senso o in ogni altro modo, in tutte queste cose conosciute è conosciuto Dio stesso come causa” (31). Solo su questa base di teologia naturale è possibile la predicazione della Rivelazione; che si aprì con la predicazione di S. Giovanni Battista (N.T. Jo. 3, 7) appunto supponendo la possibilità da parte dei proseliti di agire rettamente (distinguendo il bene dal male per la percezione della legge etica di natura) e di potersi così preparare all’avvento del Regno (32). Queste mie osservazioni non sembrino fuori posto: si pensi quanto sia diversa la nozione nichilistica del dialogo propria dei nostri tempi (rimando al mio § 1, in fine). La frase corrente: “badiamo a ciò che ci unisce e non a ciò che ci divide”, se per ciò che unisce s’intendono i praecepta legis naturalis, comuni a tutti gli uomini, è verissima (33); ma se intesa in senso pragmatistico (cioè: mettiamoci d’accordo sulle cose da fare e lasciamo perdere i principii!) non risolve ma aggrava i problemi del multiculturalismo.

3 – LE CHIESE CRISTIANE E IL DOMINIO DELL’ISLAM

Ma quel padrone musulmano, per quanto tirannico, non è però totalitario: niente ideologia, niente nazionalismo, niente scientifica pulizia etnica (tutte cose importate dall’Europa atea verso la fine dell’impero, tra l’ottocento e il novecento). Molti furono i sultani di sangue misto, regolarmente figli di schiave straniere (la celebre Rosselana russa, Cecilia Baffo veneta…); molti i gran visir di origine non turca, come pure i capudan pascià più temuti nel Mediterraneo come il  siciliano Barbarossa,  il calabrese Luccialì, il genovese Cicala. Non si contano i cristiani rinnegati che contribuirono alla forza dello stato attratti da convenienza economica (specialmente ricercati erano i tecnici italiani e tedeschi per la fabbricazione d’armi e di navi); e d’origine esclusivamente straniera, com’è noto (quasi che fosse proprio questa una garanzia di maggior valore) era quel corpo speciale dell’esercito, che in certe occasioni arrivò a esser quasi arbitro del potere, reclutato tra i fanciulli dei villaggi cristiani rapiti e convertiti a forza: i giannizzeri. Niente nazionalismo, niente razzismo, solo l’Islam dominava incontrastato ma non escludeva la tolleranza, a certe condizioni, della legge di Cristo e di quella di Mosè (mentre nell’Occidente cristiano non vigeva di solito, per le altre due religioni e per le diverse confessioni del cristianesimo, una pari tolleranza) (34). Anzi il rapporto del sultano con la religione cristiana mantiene, paradossalmente, una certa analogia col cesaropapismo che caratterizzava l’età bizantina (persino c’è, tra i suoi titoli dopo il 1453, quello di Kaisar-i-Rum, imperatore dei Romani: parola questa, che aveva anche e sopra tutto un significato religioso).

Nasce il cesaropapismo con Costantino che (ancora pagano!) convoca nel 325 il concilio di Nicea, molti suoi successori combattono o appoggiano varie eresie e l’iconoclastia, e dopo lo scisma promuovono o impediscono i vari tentativi di riunione con la chiesa romana. Similmente il sultano domina e protegge la Chiesa nello stesso tempo, attraverso la persona del patriarca di Costantinopoli; il quale, paradossalmente, è più potente di prima, perché, se non può ovviamente permettersi il minimo dissenso politico, in campo religioso dal sovrano musulmano non deve più soffrire alcuna ingerenza, ed è riconosciuto capo e responsabile dei cristiani. Praticamente la terza se non la seconda autorità di tutto l’impero ottomano. 

4 – SIT PRO RATIONE VOLUNTAS

Rischiava comunque di essere, quella spada di Maometto, non una metafora ma qualcosa di molto concreto (35). Allora come adesso, si potrebbe aggiungere; anzi adesso è peggio, in certi luoghi (non in tutti) dove comanda l’Islam: almeno, sottomessi al sultano, potevano i cristiani d’Oriente restare relativamente tranquilli e godere di una certa autonomia, e nel corso della storia ebbero anche tempi di fioritura economica e culturale (36). Oggi sono avviati all’estinzione, dopo un secolo e più di persecuzioni, di pulizia etnica (37), di terrorismo; da quando, ai primi del secolo scorso, erano una cospicua minoranza (e qua e là maggioranza) anche in progresso demografico, e spesso alla guida della cultura e dell’economia dei rispettivi territori.  

Ma è proprio a questo aspetto di attualità che voleva alludere Benedetto XVI? Nel qual caso si potrebbe pure comprendere, anche se non giustificare, le violente reazioni suscitate da quel discorso nei musulmani fanatici e nei cristiani votati al dialogo nichilistico. No, non è affatto così:  a parte che Ratzinger non par proprio che fosse a tal punto amante dello scontro, la chiave è, a mio giudizio, nella nota del Khoury, da lui espressamente citata, al μὴ σὺν λόγῳ ποιεῖν ἀλλότριον Θεοῦ (38): “Per un bizantino, nutrito di filosofia greca, questo principio è evidente. Per la dottrina musulmana, Dio è assolutamente trascendente, la sua volontà non è legata da nessuna delle nostre categorie, nemmeno quella del ragionevole. ‘Ibn Ḥazm arriverà fino a sostenere che Dio non è legato nemmeno alla sua parola, e che niente l’obbliga a rivelarci la verità: se lo volesse, l’uomo dovrebbe essere idolatra’ (R. ARNALDEZ, Grammaire et théologie chez Ibn Ḥazm de Cordoue, Paris 1956, p. 13)”. Ma di qui comincia il Papa ad esporre un’analogia che ci porta immediatamente in campo cristiano: anche noi abbiamo avuto, nella nostra filosofia e teologia, un simile volontarismo (forse per qualche comune radice storica? il Papa non lo dice, né saprei dirlo io), che ebbe inizio con Duns Scoto “in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista” e, nei suoi successivi sviluppi, giunse a “posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene”.

Si potrebbe bensì osservare che in verità ci fu una teologia islamica strettamente connessa con la metafisica, ed è nota col nome di kalam, che in arabo vuol dire “parola”, analogicamente (è ben degno di nota!) sia in senso metafisico sia logico-dialettico, come il logos/ verbum: niente affatto aliena, dunque dalla ragione (39); ma non l’osserva Benedetto, né aveva ragione di farlo se è vero che non se ne fa cenno nella VII discussione (e se non erro neanche nelle altre);  ma sopra tutto quel che gl’interessa è ben altro, sicché di qui in poi dell’Islam non ne parla più: e questo l’hanno ignorato, o l’han voluto ignorare, quelli che allora l’accusarono. Dice infatti che contro chi esagera la trascendenza e la diversità di Dio in modo tale “che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio” di Lui, “la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Laternanense IV nel 1215 – certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (40). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore”.

Contro questa dottrina, che è fede della Chiesa, si è rivolto un movimento che pretendeva di liberare il genuino Cristianesimo dall’influenza spuria della filosofia greca, cioè appunto del logos penetrato attraverso Filone e il neoplatonismo: la deellenizzazione, che si svolse storicamente in tre ondate. Ecco che cosa premeva davvero al Papa! cosa gli premeva di dire, anzi di gridare, e che i suoi critici non a caso hanno taciuto. Ecco perché è perfettamente credibile, e non sa di scusa inventata troppo tardi, quel che afferma nella nota 3 del suo testo poi pubblicato, che lui è d’accordo con Manuele sul “rapporto essenziale tra fede e ragione”,  ma non è che la citazione testuale esprima la sua opinione personale (sul punto, forse abbastanza accidentale per lui, di un’eccessiva violenza dell’islamismo (41)). Il ricordare l’esempio storico della polemica con l’Islam serviva al Papa a ribadire la dottrina cattolica contro volontarismo e fideismo.

Sono queste le tre ondate della deellenizzazione secondo Benedetto XVI: 1) la riforma del XVI secolo, che intendeva liberare la fede dalla metafisica per farla tornare se stessa; 2) la teologia liberale del XIX e XX secolo, che voleva ritornare al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice; 3) oggi, riconoscendo che l’ellenizzazione fu un’inculturazione in un dato momento storico, si dice che dobbiamo sì tornare indietro ma solo per poi inculturare il Vangelo nel nostro ambiente. 

Attenzione: anche i punti 1 e 2, che il Papa sembrerebbe considerare passati, in realtà sono più attuali che mai: il primo attraverso l’ecumenismo a ogni costo, il secondo, ch’egli raffigura come idea dominante al tempo degli studi della sua gioventù, che  poi sia tanto cambiato non mi risulta: haec recinunt juvenes dictata senesque… Come l’avranno presa dunque i tanti alfieri  di quelle tre bandiere? Non pare che abbiano reagito con degli argomenti; ma la rabbia sarà stata tanta. Si ripiegò sull’accusa di islamofobia (42), forse faute de mieux?

Ricorda infine Benedetto proprio quel luogo del Fedone che già conoscevamo (43): esser grave danno se, essendovi un discorso verace, saldo e possibile a riconoscersi per tale, poi per reazione alla fallacia dei sofisti si arrivi a odiare i logoi, così rimanendo privi della verità e della scienza di ciò che realmente è. Alla stessa maniera, conclude il Papa, “l’occidente, da molto tempo, è minacciato  da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione (44), e così potrebbe subire solo un grande danno”.

5 – DI ALCUNI LUOGHI DELL’ASIA MINORE. Appendice storico-topografica

   San Paolo scrisse ai Galati: come mai abbiamo questo nome d’un popolo e non quello d’una città come Efeso, Filippi ecc.? A quanto pare perché nella Galazia, provincia romana dal 25 a.C., c’erano diverse comunità cristiane (scrive ecclesiis Galatiae, al plurale) tra cui certamente quelle da lui visitate di Listra, Iconio, Derbe. Nella capitale, Ancyra, non risulta che sia passato. Erano i Γαλάται in greco nient’altro che i Galli, dei quali alcune tribù dopo lunghe migrazioni oltre le Alpi (nacque allora la Gallia Cisalpina e fu pure assalita Roma, com’è noto) si stabilirono nel III secolo avanti Cristo nel centro dell’Asia Minore. Capo di una di queste tribù (i Tolistobogi) era quel Deiotaro che diventò re e fu difeso da Cicerone nel 45 a.C. al cospetto di Cesare. I dialetti celtici vi erano ancora parlati, attesta San Girolamo, quattro secoli più tardi, ma lingua scritta, ufficiale e commerciale era il greco, come in tutto l’Oriente.

   ANGORA (Ἄγκυρα, Ancyra, Engürieh, Ankara) – La capitale, città dei Galli Tectosages, era importante per trovarsi all’incrocio di varie strade provenienti dall’Egeo e dal Bosforo e dirette in Mesopotamia e in Persia. Nelle rovine del tempio di Roma e Augusto si legge la lunga iscrizione delle gesta di quest’imperatore (monumentum Ancyranum). Nel 325 il vescovo della città, Marcello, fu uno dei protagonisti del concilio di Nicea. La diedero in potere ai Turchi Selgiuchidi le due grandi sconfitte bizantine di Manzicerta (1071) e di Miriocefalo (1176) benché nell’intervallo fosse ricuperata in seguito alla vittoria crociata di Dorileo (1097). Era avviata da tempo alla decadenza quando fu conquistata dagli Ottomani di Murad I: rimase nota tuttavia per l’allevamento delle capre, dei gatti e dei conigli. Dopo la vittoria di Tamerlano il dominio turco-mongolo fu effimero. Si può forse congetturare che al tempo dei dialoghi di Manuele col mudarris fosse rimasta cristiana almeno la metà della popolazione, se  nel censimento del 1890 i musulmani non erano arrivati a 18.000 su circa 28.000 abitanti in tutto (45). Dopo la prima guerra mondiale vi ebbe sede il governo nazionalista di Kemal pascià, il quale poi la fece capitale della nuova Turchia repubblicana. A metà del secolo XX aveva mezzo milione di abitanti, oggi cinque milioni! Tutti Turchi e Curdi, dopo la pulizia etnica che gli Ottomani islamici non avevano fatta in sei secoli, e il regime massonico degli atei (Giovani Turchi prima, Kemal poi) sbrigò in pochi anni.

   FILADELFIA (Alasehir= città splendente) – Nell’antica Lidia, è una delle sette chiese dell’Apocalisse. Come ho detto fu l’ultimo possesso bizantino in Asia, caduto sotto i Turchi Ottomani nel 1391. I Greci nel 1890 erano 4.000 su 21.000 abitanti: furono espulsi con lo scambio di popolazioni del 1923; quando dico Greci intendo cristiani ortodossi, cioè ubbidienti al patriarcato di Costantinopoli, anche se molti di questi (magari non come qui nelle regioni costiere ma nell’interno come in Cappadocia) non parlavano altra lingua che il turco.  Reciprocamente i musulmani di Candia, di lingua greca, furono spediti in Turchia: la pulizia etnica, qui come nella Bosnia post-iugoslava, si faceva su base rigorosamente religiosa, non certo linguistica (46); le nazioni, millet in turco, dell’impero ottomano erano le confessioni religiose.

   FILOMELIO (Aksehir= città bianca) – Nell’antica Frigia. Prima che vi morisse Bajazet prigioniero di Tamerlano come s’è detto, son da notare altre due cose. Nel 1116, durante la terza crociata vi avvenne una battaglia tra l’imperatore Alessio I Comneno e i Selgiuchidi, che furono sconfitti. Vi morì nel 1284, tornati i Selgiuchidi, il mitico ulema (teologo musulmano) Nasredin Hogia, protagonista di storielle tra l’arguto e l’assurdo sul tipo dell’antico cinico Menippo e del nostro Bertoldo, diffuse nella letteratura popolare di tutto il mondo orientale nel più ampio senso, dalla Grecia alla Polonia e alla Mongolia.

   Si vede già da questi pochi esempi che la rovina della cristianità, in questa regione di massima importanza dell’Oriente che è l’Asia Minore, non è stata tanta in molti secoli di dominio musulmano quanta nel laicissimo e sciaguratissimo Novecento: e l’osservazione si può purtroppo estendere ad altre regioni: Siria, Palestina, Iraq, per non parlare dell’Armenia dove è avvenuto il genocidio più scientificamente organizzato dal quale prese esempio Hitler per lo sterminio degli Ebrei. Non si devono al contrario trascurare i vari segni di continuità rispetto all’impero cristiano che si riscontrano in quei lunghi secoli (47). Si è già detto del cesaropapismo bizantino, non certo uguale ma neanche contrario (direi: analogo) all’atteggiamento che ebbero costantemente  i sultani ottomani verso la nostra religione. Ma in generale la decadenza economica e sociale lamentata da Manuele, che “dalle peregrinazioni attraverso le regioni  dell’Asia Minore aveva riportato impressioni che lo riempivano di pena. Tante città un tempo fiorenti non erano più che un ricordo, in rovine, annientate. Altre avevano perduto il loro nome greco e ne avevano ricevuto un altro di origine barbara. – Ancira, un tempo nobile, ora non lo è più, perché ricca di empietà – scrive a suo fratello. La sua anima di cristiano e la sua fierezza di greco ne sono profondamente scosse” (48); questa decadenza dico, come non osservare che era stata causata, ancor più che dall’invasione musulmana, dalle guerre civili che avevano tormentato l’impero cristiano nei due secoli precedenti, dalla rapacità dei mercanti veneti e genovesi, dalla prepotenza dei mercenari assoldati dai vari pretendenti al trono per combattersi tra di loro più che per respingere i nemici esterni? Tra questi mercenari c’erano stati e molti infedeli (Ottomani e altri), e dei cristiani molto più pestiferi di loro, come quei Catalani che per vendicare l’uccisione del loro capo avevano anche loro assediato Costantinopoli e, devastata la Tracia e la Macedonia, quando non rimasero più raccolti da depredare, case da bruciare, donne da violentare si spostarono a sud sin che s’impadronirono del ducato d’Atene: appena due o tre anni prima della disputa di Manuele col mudarris, aveva posto fine a questo loro dominio il fiorentino Neri Acciaioli (49). Anche dunque se lo stabilizzarsi del dominio musulmano non dev’essere stato il massimo della gioia, non mi sembra di concludere cosa azzardata se dico che la povera gente che abitava quello che era stato l’impero bizantino deve avere in gran parte tirato un respiro di sollievo dopo tante tribolazioni. 

   Quanto ai nuovi arrivati, a parte la violenza della conquista, erano diversi di costumi, in origine pastori nomadi dell’Asia centrale (il Turkestan): si fusero gradualmente con la popolazione locale cristiana e la conversione di questa all’Islam fu molto lenta, come ho detto, nel corso dei secoli. Ma ancora ai primi del secolo scorso un archeologo italiano notava “una vera sopravvivenza di istinti nomadi” nella gioia con cui venivano eseguiti, come da noi in Abruzzo o sulle Alpi, gli spostamenti per il lavoro estivo. “Ho incontrato – scrive – una carovana di mietitori che dalla Licaonia andavano verso la Frigia: quell’allegra comitiva in cerca di lavoro, camminava da diciassette giorni, e forse doveva camminare ancora dieci. Impiegava vale a dire un mese di viaggio, per andare a trovare forse quindici giorni di lavoro. E dire che muoveva da paesi in cui vi è sovrabbondanza di mietitori unicamente perché i campi non vengono seminati!” (50). Se ci riportiamo con la fantasia a oltre cinque secoli prima, al 1391, ecco che le condizioni dell’ambiente sociale non dovevano essere molto diverse.

ANTONIO ANTONIONI

Note:

(1) Questo scritto nasce da una conferenza tenuta a Bondeno (Fe) per l’Università Popolare il 5 dicembre 2019 sul tema Le chiese orientali nell’ambiente sociale e culturale di tre continenti.

(2) Col titolo Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, fu tenuto nell’aula magna dell’università di Ratisbona (dove già aveva insegnato J. Ratzinger) il 12 settembre 2006. Si può leggere in italiano in Internet.

(3) Manuele II Paleologo, Dialoghi con un musulmano. VII discussione, intr. testo crit. e note di Th. Khoury, tr. di F. Artioli, Roma – Bologna 2007.

(4) Il testo usato (ed espressamente citato dal Papa) era questo del 1966, prima edizione Il Migne nella Patrologia graeca aveva pubblicato solo la dedica, il prologo e le prime due delle 26 conversazioni. In seguito è stato pubblicato, e per due volte, tutto il Διάλογος (così intitola Manuele l’intero complesso; διαλέξεις le singole discussioni).

(5)  = ed.cit.,  p. 142 s.; dove annota il Khoury: “Cf. Corano 9, ultime disposizioni riguardanti la guerra santa”.

(6) Πειθοῖ μὲν διὰ λόγων οὐδὲν ἔτι χρῆται, βίᾳ δὲ καὶ ἀγριότητι ὥσπερ θηρίον πρὸς πάντα διαπράττεται (Plat. reip. III, 411 d 8 s.), luogo simile anche nei termini: λόγος/ πείθειν/ πειθώ opposti a βία (quest’ultimo, nel testo di Manuele, 3 c 14); dove Socrate espone gli eccessi della parte irascibile dell’anima, personificata dai soldati della repubblica ideale, contrapposti alla parte razionale, per sostenere che si deve contemperare le due tendenze nell’educazione  attraverso la ginnastica e la musica (412 a). Cf. anche Theaet. 167 e – 168 a, avvertendo però che qui si tratta dell’avversione alla filosofia causata dal disgusto per le fallacie dei sofisti; lo stesso in un luogo assai più noto, Phaed. 89 d 1 ss., dove ritorna il termine μισόλογοι.

(7) E. Hoffmann, Platonismo e filosofia cristiana, tr.it.,  Bologna 1967, p. 50; ib., p. 127 ss., sul logos stoico; p. 205 s. su Sant’Agostino (anche riguardo a quest’ultimo l’autore parla di “trasformazione stoica del platonismo”). Non so se l’autore prenda da Aristotele la distinzione tra la vita dei sensi,  comune anche ai bruti, e la facoltà propria dell’anima dell’uomo che è “l’attività secondo ragione” (ἐνέργεια κατὰ λόγον ἢ μὴ ἄνευ λόγου: Arist. eth. Nic. I, 1098 a 1-8; cf. ib., 12-17). Quel che conta si è di non confondere questo concetto di logos radicato ontologicamente, quale differenza specifica dell’essenza umana, col riduzionismo della ragione a mero strumento di dominio tecnocratico, proprio del razionalismo moderno. Un principio di origine magico-alchimistica, cioè che scientia et potentia humana in idem coincidunt (F. Baconis Novi organi pars II, l. I, aphorismus 3) è diventato il dogma fondamentale della così detta civiltà occidentale. “La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto, se così si può dire, della società estraniata a se stessa” (M. Horkheimer – Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr.it., Torino 2010, p. 127). Nell’infinità dei riferimenti possibili sul tema, basti qui rinviare, sulla “critica della ragione strumentale” da parte dei Francofortesi,  a U. Galeazzi, La teoria critica della scuola di Francoforte, Napoli 2000, p. 107 ss. 

(8) Plat. Phaedr. 242 a 7 – b 5.

(9) Arist. met. XII, 1072 b 22 ss.

(10) Sulla ricezione del logos greco da parte degli apologisti cf.p.es. W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e Paideia greca, tr.it., Firenze 1966, p. 37 ss. Basti questa frase: “Noi imparammo che Cristo è il primogenito di Dio e che è il Logos, del quale partecipa tutto il genere umano” (Justin. apol. I, 46).

(11) Cf. p.es. Thom.Aq. s.th. I, q. 45, a. 7: tutte le creature sono vestigio della Trinità, in quanto ne rappresentano l’efficacia; quelle razionali ne sono anche immagine, rappresentandone la forma (intelligenza e volontà secondo la processione del Verbo e dello Spirito). 

(12) E. Przywara, Analogia entis, tr.it.,  Milano 1995, p. 367 s. (tutta la trattazione, che dà un minuto confronto con la filosofia moderna, Hegel, Husserl, Heidegger…: p. 361 ss.). Ontico = dell’ente, della cosa reale; produttivo rende il νοῦς ποιητικός (Arist. an. III, cap. 5), l’intellectus agens della scolastica. Per le idee in Dio cf. s.th. I, q. 15 (Dio è causa esemplare di tutte le cose: cf. A. Piolanti, Dio nel mondo e nell’uomo, Città del Vaticano 19942, p. 87 ss.); celebri espressioni letterarie: Boëth. cons. III, met. 9, 13-16 (da Plat. Tim. 29 a); Dante, par. XIII, 52-54.

(13) Specialm. nn. 34 ss. 45 ss. (col significativo sottotitolo Sejunctae a ratione fidei tragoedia!) nonchè (espressamente contro il fideismo) 52. 55. Si trova anch’essa in Internet. 

(14) J. Ratzinger, nell’Osservatore romano, 16 ottobre 1998, p. 3, cit. da A. Livi, in Premesse razionali della fede, a cura di A. Livi, Città del Vaticano 2008 (che si raccomanda per approfondire l’argomento), p. 378.

(15) C. Fabro, in Corriere della sera, 1 maggio 1974, p. 11, cit. da G. Turco, Razionalità e responsabilità. Il pensiero giuridico-politico di Cornelio Fabro, Roma 2016, p. 78. Concorda Przywara, op.cit., p. 181: la libertà “si fonda (…) sull’essenza della ratio, che ha il compito di conferire ordine alla molteplicità ed è quindi libera nei confronti del singolare” (cf. s.th. I, q. 82, a. 2, ad 3: “ratio est collativa plurium…”).

(16) Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano 1992, nn. 32-36 etc.; Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 82.

(17) Sul dialogo (in particolare, islamo-cristiano) male inteso come rifiuto del dovere dei cristiani di portare a tutti l’annuncio evangelico, cf. M.-Th. Urvoy, in Bollettino di dottrina sociale della Chiesa, XV (2019), p. 49.

(18) Non ricordo dove: credo in uno dei suoi innumerevoli interventi in Youtube.

(19) Turco, op.cit., p. 108.

(20) Ib., p. 150, nota 30.

(21) Notizie generali sull’impero romano d’Oriente, sui regni cristiani di Bulgaria, Serbia, Russia, Armenia, Etiopia ecc., sul sultanato ottomano e sui rapporti di queste formazioni politiche con le chiese cristiane, si trovano in tutti i manuali.

(22) “Umanamente è una delle figure più simpatiche del tardo impero bizantino” (G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, tr.it., Torino s.a., p. 491, che sottolinea il rispetto che avevano per lui persino i Turchi, “nonostante l’indegna posizione alla corte del sultano che gli venne assegnata dalla sorte”).

(23) Se non si considera il regno dei Comneni di Trebisonda, resosi indipendente quando i Crociati conquistarono Costantinopoli nel 1204 e sopravvissuto, anch’esso in regime di vassallaggio, sino al 1461.

(24) E persino  accompagnando talvolta il sultano a caccia, come si dice nel luogo citato nella nota s.

(25) Cf. Khoury, in Manuele II, Dialoghi cit., p. 46. Si compiace l’autore di far deplorare tale passione esagerata per la caccia anche dal mudarris, verso la fine di questa VII discussione (37 a): “il nostro principe sdegna la misura anche in questo, come quasi in tutto il resto”! È chiaro che si pensa qui al notissimo luogo della virtù come μεσότης (Arist. eth.Nic. II, cap. 6; altri simili sono qui elencati dal Khoury).

(26) Il quale lamenta siffatta ingratitudine nella dedica dei dialoghi, scritta evidentemente durante l’assedio (“ritorce contro di noi persino i vantaggi che gli sono valsi le nostre pene e i pericoli che abbiamo corso allora”): cf. Khoury, ed.cit., p. 45.

(27) Ducas XXVII, 5 (storico contemporaneo, considerato attendibile).

(28) Soprannominato Celebi, termine (pare di origine curda) che significa  “nobile”.

(29) Non sarà fuori luogo ricordare (tanto per capire quanto qui siamo fuori di un quadro di grossolana contrapposizione ideologica (tipo scontro di civiltà) che persino Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli, “discusse intorno alle credenze cristiane con i patriarchi Ghennadio e Manuele: il primo scrisse per lui un’esposizione del credo cristiano, che venne tradotta in turco (…). Il biografo greco Critobulo, che ne narra le gesta nello stile di Tucidide, esalta la passione di Maometto di conoscer bene il passato (τὰ πάντα τῶν παλαιῶν εἰδέναι καλῶς) e lo qualifica φιλέλλην per la riverenza dimostrata ad Atene innanzi al Partenone” (A. Bombaci, Storia della letteratura turca, Milano 19632, p. 285 s.; che cita F. Babinger, Mehmed der Eroberer und seine Zeit, München 1953, p. 539 ss.).

(30) Nella dedica dei 26 dialoghi (cf. Khoury, ed.cit., p. 45).

(31) Thom.Aq. In Dionysium de divinis nominibus, c. 7, lect. IV, n. 731.

(32) Cf. Piolanti, op.cit., p. 623.

(33) Cf. E. Ancona, Via iudicii, Padova 2012, pp. 49 ss. 55.

(34) Naturalmente la mescolanza etnica non l’avevano inventata gli Ottomani. Già nell’impero cosmopolita di Bisanzio era più la regola che l’eccezione: è caratteristica la figura di Digenis Akritas, eroe della più nota epica greca medievale, così chiamato proprio perchè figlio di un emiro musulmano, poi convertito, e di una greca (διγενής = di due stirpi; il suo nome era Basilio; gli ἀκρῖται erano i preposti alla difesa militare dei confini, τὰ ἄκρα).

(35) Ma si consideri che la situazione dei cristiani d’Oriente era più varia di quella sin qui descritta, in quanto parte di loro abitavano in paesi che non furono mai soggetti all’impero bizantino e poi neanche a quello ottomano: Persia, India, Etiopia, Russia (di cui alcuni sotto un sovrano musulmano, altri cristiano). Inoltre erano suddivisi in parecchie obbedienze ortodosse (i patriarcati antichi di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria, poi Costantinopoli; e in Occidente la sola Roma), eretiche (eterodosse) e scismatiche,  ciascuna in rapporto contingente di appoggio, tolleranza o persecuzione da parte del potere politico. Basti qui questo cenno; ciò che seguiva  nella conferenza di Bondeno (cf. sopra, nota 1), cioè un sommario dei primi concilii ecumenici, delle questioni dogmatiche in essi trattate in rapporto alle varie eresie, e un elenco dei cinque riti orientali della chiesa cattolica coi rispettivi patriarcati, qui credo che prolungherebbe inutilmente il discorso.

(36) Anche se in questo v’era per lo più una gran differenza tra la capitale, con pochi altri centri, e le provincie spesso abbandonate alla miseria, alle scorrerie dei briganti, alle vessazioni di governatori disonesti; ma ciò non solo a danno dei cristiani. A Costantinopoli, all’ombra del patriarcato, il quartiere del Fanari viveva prospero nella fede dei padri, e uomini delle sue famiglie più illustri servirono la Sublime Porta come funzionari, diplomatici, persino grandi feudatari (a capo dei principati danubiani di Moldavia e Valacchia).

(37) Com’è noto la stessa prepotenza infame ha colpito, reciprocamente, le  minoranze musulmane negli staterelli nazionalisti balcanici distaccatisi dall’impero ottomano nel secolo XIX; come pure i Circassi scacciati dalla Russia. L’ultima espulsione in massa  fu quella del 1923, voluta paradossalmente dall’eroe nazionale turco Kemal col trattato di Losanna che costrinse mezzo milione di musulmani (non pochi di lingua greca) ad abbandonare le loro case in Grecia (contro un milione e mezzo di cristiani, non pochi di lingua turca, scacciati dalla Turchia). 

(38) Ed.cit., p. 144, nota 1.

(39) Cf.p.es. G. Quadri, La filosofia degli Arabi nel suo fiore, Milano 2008, p. 17 ss.

(40) Su questo dogma  (cf. H. Denzinger, Enchiridion symbolorum…, Friburgi Brisgoviae 193721-23, n.  432) insiste moltissimo Przywara, op.cit., p. 132 ss.; 250 ss.; etc.

(41) Si noti che all’opposto proprio su una presunta durezza disumana della legge di Cristo (porgi l’altra guancia, ama i nemici, odia i genitori e i fratelli…), contraria dunque al criterio in medio stat virtus (cf. sopra, nota 25) si appoggia per la sua polemica il mudarris (5 d-h; ribatte Manuele, 32 b).

(42) Questo come altri abominevoli neologismi ideologici,  non credo che fosse ancora in uso nel 2006, sarebbe dunque anacronistico; ma spero che si capisca che l’ho usato solo ironicamente.

(43) Plat. Phaed. 90 c-d (cf. sopra, nota 6).

(44) Allude al riduzionismo scientistico di cui prima ha trattato ampiamente (cf. sopra, nota 7), e che si manifesta anche nello storicismo gnostico della deellenizzazione.

(45) Cf. Enciclopedia italiana, III, Roma 1929, s.v. Angora, p. 340. La congettura è del tutto ipotetica: certamente vi fu nella storia dell’impero ottomano un graduale processo di turchizzazione, ma con quale andamento, eventualmente anche fluttuante, è difficile dirlo. Addirittura a Costantinopoli i Greci aumentarono per tutto il XIX secolo, arrivando a 200.000 alla vigilia della prima guerra mondiale, su un milione di abitanti (la grande capitale esercitava una forte attrazione sulle povere periferie dell’impero dove abitavano minoranze greche, e persino sul regno  indipendente di Grecia). A Smirne erano la maggioranza, mentre a Salonicco venivano solo al terzo posto dopo Ebrei e Turchi. Altri centri cosmopoliti erano Alessandria e Beirut, ma di sviluppo più recente, da quando  il canale di Suez ebbe ridato valore al decaduto ambiente mediterraneo.

(46) Come s’è accennato sopra (nota 37). Coerentemente non furono toccati i musulmani grecofoni del Ponto, ancor oggi presenti in Turchia.

(47)  Oltre i caratteri comuni alle grandi monarchie orientali sin dall’antico impero persiano (uno dei quali è il cosmopolitismo a cui s’è accennato)  potremmo indicare (ma uscendo dei limiti del nostro argomento storico- religioso: bastino dunque due parole!) la struttura in gran parte feudale dell’organizzazione militare. Il titolare  della πρόνοια bizantina (termine che equivale al latino beneficium, di pari significato feudale) era tenuto non solo a combattere lui stesso nella cavalleria pesante ma anche a far combattere ai suoi ordini i suoi contadini; non mi pare diverso (ma lascio l’approfondimento agli esperti) il regime del timar ottomano, il cui beneficiario (timarlu, τιμαριώτης) era uno spahi o sipahi (parola di origine persiana che significa “soldato di cavalleria”). Precedenti storici delle πρόνοιαι erano state le στρατιωτικαὶ κτήσεις, assegnazione di poderi ai combattenti ma in ragione personale, come nell’antica Roma.

(48) Così riassume dalla dedica ai dialoghi Khoury, ed.cit., p. 23.

(49) Cf. R. Muntaner, La spedizione dei Catalani in Oriente, tr.it., Milano 1958.

(50) B. Pace, Dalla pianura di Adalia alla valle del Meandro, Milano 1927, p. 163.

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