Chesterton, le Crociate e il Medio Evo: note di lettura

di Antonio Antonioni

A) IL MOMENTO STORICO. – La lettura di due scrittori moderni, proposta in un  recente lavoro in questo stesso sito (1), induce a cercar di approfondire gli  aspetti storici ai quali ambedue si riferiscono. Il fenomeno delle Crociate, che per la sua singolarità ha attirato un incredibile interesse degli studiosi (2), si svolge al tempo di quella che è stata forse la più straordinaria rinascita civile, culturale, giuridica, economica, religiosa  dell’Europa occidentale; nè senza quella rinascita sarebbe stato possibile. Do qui per conosciuto un minimo di notizie storiche che servono per intendere ciò che si dirà; quantunque di tali notizie sia prodigo, come abbiam visto, lo stesso Chateaubriand (ma non tanto Chesterton), raccomando almeno la lettura di un recente compendio storico, molto sintetico ma così diligentemente documentato da poter servire come base per qualunque approfondimento (3).

   “L’XI secolo – scrive un altro studioso – è caratterizzato da un rinnovato sviluppo delle attività produttive agricole (nuovi terreni disboscati e messi a coltura, maggior controllo dei corsi d’acqua) e artigianali (apertura di opifici ‘specializzati’ con l’adozione di nuove ‘macchine’ e nuove procedure), e mercantili… Le grandi potenze marittime, superando il  carattere di cabotaggio costiero, acquistano sempre più ruoli a scala mediterranea in un mare che non è più un ‘lago musulmano’” (4).  Mi sembra perciò molto convincente  la proposta di bipartizione del medio evo in due età, accomunate da certi caratteri ma per altri ben distinte (5),  che è sostenuta  da uno storico del diritto, il Grossi. Non è un caso, dice, se “quella fine del secolo undecimo che segna in tutta Europa il momento della riconquista della terra” (6), e inoltre della rinascita del commercio, dell’artigianato e dunque delle città, costruisce gradualmente un diverso ambiente sociale: “una civiltà che trova inadeguate le grezze regole consuetudinarie, rispettate ed efficienti fino a ieri, o che almeno ne chiede di nuove che si affianchino alle vecchie” per “essere giuridicamente ordinata” (7). L’alto medio evo era stato infatti l’età del primitivismo e del naturalismo giuridico, proprio di un’Europa ridotta in condizioni di miseria, d’isolamento, di difficile sopravvivenza (8). Ma anche la rinascita d’una raffinata dottrina giuridica (civile e canonica) con la riscoperta del diritto giustinianeo, non portò affatto alla scomparsa della consuetudine, che restava necessaria per disciplinare le relazioni delle comunità locali (9): nell’ambiente molto particolare della Terra Santa conquistata si formarono così le Assise di Gerusalemme (10). 

   Nello stesso tempo di rinascita civile, economica e giuridica dell’Europa si assiste anche a un grande movimento religioso di ripresa della Chiesa romana che aveva nei due secoli precedenti toccato il fondo della decadenza. È la riforma detta gregoriana (11), che riguardò, com’è noto, un vastissimo ambito di vita del clero e del popolo cristiano: e in quest’ambito, è stato notato, ha una parte importante il mutamento della nozione di militia Christi, di cui avevan parlato i padri della Chiesa sulle orme di San Paolo: “induite vos armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diaboli. Quoniam non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem…” (12). Per la prima volta in quest’epoca quella che s’era intesa sino allora come pugna spiritualis, e tale restava rigorosamente per gli animi più legati alla tradizione ascetica come San Pier Damiani, diventa combattimento non più metaforico: prima nel movimento della pax Dei benedetto dalla Chiesa contro i tyranni cioè i cavalieri predoni, poi nelle Crociate contro gl’infedeli (13). Nascono persino, in deroga al divieto di portare le armi sempre imposto ai chierici, degli ordini religiosi cavallereschi: Templari, Ospitalieri di San Giovanni, Ospitalieri di Santa Maria (i Teutonici), che non solo assistono i pellegrini ma sopra tutto partecipano strenuamente alla difesa militare della Terra Santa. Come il proteggere anche con la forza i poveri e in generale gli inermi (donne, contadini, mercanti, ecclesiastici) da qualunque offesa e prepotenza, dovunque sia, diventa per la prima volta preciso dovere dei cavalieri laici, e nasce così, promossa dalla Chiesa, l’etica cavalleresca  (non solo sans peur ma anche sans reproches (14) dev’essere il miles) così quei poveri per eccellenza che sono i pellegrini ricevono una difesa di cui hanno più di tutti bisogno nei loro viaggi pieni di pericoli e in un ambiente costantemente minacciato dagl’infedeli.

     B) LIMITI E CRISI DELLE CROCIATE . – Insomma anche lo slancio transmarino delle Crociate è un effetto di questa grande crescita dell’Europa nel secondo medio evo; non c’era mai stata prima, nè ci poteva prima essere, una volontà bellicosa dell’Occidente contro l’Islam, ma eventualmente delle guerre solo difensive. La crescita non portò tuttavia a un’espansione territoriale, se non limitata e abbastanza effimera, sull’oltre mare, a differenza di quanto avvenne nelle crociate ispaniche e baltiche; e non c’è da meravigliarsene, poichè mancò affatto qualunque progetto geopolitico di conquista e non vi fu quasi mai  concordia e unità di comando: se nel predicare e sollecitare la Crociata il Papato fu quasi sempre molto attivo, che tale primato spirituale da tutti riconosciuto (15) potesse tradursi in direzione operativa, come talvolta si pretese, era pura illusione, come si vide chiarissimamente nella così detta quinta Crociata, portata al disastro dall’ostinata incompetenza strategica del cardinale Pelagio Galvani, legato del papa Onorio III (16). Solo nella prima vi fu una quasi miracolosa convergenza di quattro diversi contingenti militari (anche se fin dall’inizio non mancarono le discordie) così da arrivare alla vittoria, in tempi di particolare divisione e debolezza del mondo musulmano; poi si fece sentire sempre più pesantemente la mancanza d’un potere unitario come quello romano antico: forse  solo l’attuazione del sogno di Dante avrebbe permesso di compiere la grandiosa impresa. Al contrario caratteristica del medio evo, fu detto, è “l’incompiutezza del potere politico” (17); nonchè, com’è noto, il cronico dissidio tra papa e imperatore, i quali, scriverà poi Baldo degli Ubaldi, “si conveniunt simul, omnia possunt” (18), e questo principio se si fosse applicato alle Crociate avrebbe prodotto cose grandi, ma così non fu (19). “Il grande pontificato di papa Innocenzo III”, per esempio (1198 – 1216), “ebbe proprio nell’esito della crociata – una delle basi del suo programma – il suo punto debole” (20) per l’impossibilità da parte del papa di controllare l’esito degli eventi. Si aggiunga la relazione molto ambigua con l’altro imperatore, quello d’oriente, la cui richiesta d’aiuto fu sì, sembra, nel 1095 all’origine della prima crociata, ma che poi vide con diffidenza e sospetto l’afflusso nel suo territorio di grandi masse di armati fuori del suo controllo (21); anche se poi le vittorie dei Crociati sui Turchi Selgiuchidi a Nicea e a Dorileo gli servirono per riconquistare parte dell’Anatolia. Si aggiungano ancora le discordie interne alla stessa Terra Santa tra le autorità sovrane (22), specialmente il re di Gerusalemme, e i vassalli maggiori, nonchè  tra tutta la feudalità locale e i Crociati che via via giungevano a portare aiuto ma anche talvolta pretendevano di ingerirsi anche a sproposito nel comando delle operazioni senz’aver conoscenza adeguata dell’ambiente: “il fatto che i crociati giunti dall’Europa prestassero regolarmente poco ascolto al parere dei ‘franchi d’oltremare’ fu una delle principali cause del fallimento di tutte le numerose spedizioni crociate successive alla prima” (23). Si creò anzi, a poco a poco, una rivalità sempre più forte tra le famiglie nobili che da più tempo si erano stabilite in quella terra conquistata, più inclini a compromessi coi vicini musulmani, e i Crociati di arrivo più recente, spesso “animati da un più accentuato avventurismo che li portava a decisioni alle volte semplicemente folli” (24). L’odio feroce tra questi due partiti portò alla rovina: “con una serie di decisioni tendenti più al vantaggio personale che alla causa comune i franchi si impegnarono con il massimo sforzo per sconfiggersi da soli” (25). Di fronte a queste forze disunite e discordi il mondo musulmano specialmente con Norandino, che unificò la Siria, e con Saladino, che unì Siria ed Egitto, e infine coi Mamelucchi, giunse gradualmente a riacquistare una potenza unitaria, e si svolse  quella  che fu chiamata  Anticrociata (26), bandita sotto il segno del jihad.  Fu decisiva la vittoria di Hattin (o Hittin) riportata con grande astuzia tattica da Saladino sull’inesperto re Guido di Gerusalemme nel 1187.

   Era, al contrario, la cristianità occidentale sempre meno disposta a un’azione comune in difesa della Terra Santa. Era stata questa possibile sin che prevaleva in quella “la coscienza di appartenere a un unico corpo” (27); ma non più quando questa viene rotta da una “metafisica della statualità” nata in conseguenza della lotta per le investiture (28). Non altrimenti si spiega il sostanziale fallimento di un’impresa a cui parteciparono personalmente i più potenti sovrani: tre imperatori romano-germanici, tre re di Francia, due re d’Inghilterra, uno d’Ungheria e molti altri principi. Ma sempre meno erano convinti del valore di quell’impresa; e, sempre più assorbiti dalle esigenze delle guerre domestiche, da cui stavano nascendo gli stati dell’Europa moderna, quasi tutti se ne tornavano in patria  al più presto, richiamati da preoccupazioni per loro più urgenti, dopo aver assolto il voto di Crociata più o meno formalmente (29). L’ultimo a credere davvero nelle Crociate fu Luigi IX di Francia, ma nulla giovarono alla Terra Santa le sue due spedizioni, condotte stranamente l’una contro l’Egitto l’altra contro la Tunisia; nella prima fu preso prigioniero, nella seconda morì di peste.

   C) LE CROCIATE IN QUESTIONE. – È inutile ricordare di quanta diversità di giudizi siano state oggetto le Crociate; e non solo per presupposti o pregiudizi ideologici: demonizzate dall’illuminismo insieme con l’inquisizione e col  medio evo in genere, mitizzate dal neo-medievalismo romantico (che si compiaceva, in campo artistico, dell’architettura neogotica e della pittura storica, in campo letterario venerava Dante, e così via).  Ma anche  studiosi in quel senso disinteressati ce ne danno dei concetti addirittura opposti: una “grande idea politica”, per esempio,  secondo il Dempf, come abbiamo già visto (30), ma un’”avventura insensata” secondo il Dupront, che parla anche di “follia”, di “società panica”, di “società asociale” e simili (31). Pur tenendo conto che partono da punti di vista diversi, di filosofia della storia il primo, di fenomenologia della religione il secondo, ho l’impressione che si tratti di due opposte esagerazioni, l’una intellettualistica, l’altra d’un certo irrazionalismo vitalistico, esistenzialistico che sembra privilegiare la “realtà vissuta” sulla verità (32).

   Ma vorrei passare a questioni più particolari. Eccone una: l’Europa è andata incontro all’Islam non solo con la guerra ma anche con vari tentativi di conversione. In che rapporto furono questi due atteggiamenti? Era forse l’uno esclusivo dell’altro? O vi fu una successione storica dal fallimento delle Crociate allo svilupparsi dell’attività missionaria? Ne tratta un apposito studio (33) che arriva a queste conclusioni: in principio non si dichiarava la conversione degl’infedeli come scopo delle Crociate; tuttavia nei territori conquistati un certo numero di conversioni vi fu (in Terra Santa mai forzate, diversamente da ciò che avvenne altrove), numero che certamente sarebbe aumentato se  non fossero stati quei territori ricuperati dai Musulmani;  d’altra parte la predicazione missionaria a questi ultimi non si è sviluppata attraverso la critica alle Crociate, benchè alcuni ecclesiastici sostenessero che la via cristiana all’espansione potesse essere solo pacifica;  anche il noto incontro di San Francesco col sultano non implicava disapprovazione della Crociata. Molto importante fu la dottrina del papa Innocenzo IV che stabiliva questo collegamento tra la  via  pacifica e quella armata, che da una parte non potesse nessun infedele esser costretto a convertirsi, ma dall’altra contro chi  impedisse con la violenza la pacifica predicazione, fosse lecita la guerra; nella dottrina vifurono poi alcuni, non solo i Valdesi e altri eretici, ma anche cattolici che esprimevano posizioni in vario modo più moderate di quelle di Innocenzo, altri al contrario atteggiamenti più radicali, come Umberto di Romans, che definisce necessaria la guerra contro i Musulmani sfiorando soltanto la possibilità della loro conversione, e lo stesso San Tommaso d’Aquino (34).

   D) LA FEDE, LA GUERRA, IL DIRITTO. – La prima Crociata secondo Chesterton fu un grande movimento di popolo, una vera sollevazione: “non ebbe solo tutte le peculiari qualità e i peculiari difetti di eventi come la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa, ma al confronto fu una rivoluzione più puramente popolare” (35); “un movimento popolare nuovo e anomalo. Potrei quasi affermare che fu l’unico movimento popolare mai esistito. Infatti la massa non vi aderì, ma lo capeggiò” (36). Lo conferma tra l’altro la “straordinaria emotività” di quella “folla di uomini rozzi e semplici che si gettavano nella polvere sacra scorgendo per la prima volta la cittadina di montagna per la quale avevano faticosamente attraversato duemila miglia” (37). Ci avviciniamo, direi, a quella che poi fu l’interpretazione socio-psicologica e fenomenologica del Dupront, come si è visto (38).

   Ma “è evidente che possedevano i vizi come le virtù di una folla. I massacri impressionanti ai quali si abbandonarono nell’improvvisa rilassatezza della vittoria sono ovviamente i massacri di una folla”, un “fanatismo puramente popolare” (39). E questo, cioè l’orrendo eccidio di quasi tutta la popolazione musulmana ed ebraica di Gerusalemme che seguì la conquista della città, non esita Chesterton, che di fanatismo religioso, a differenza del Dupront, non parla, a paragonarlo a quelli della rivoluzione francese in quanto espressione di violenza popolare esasperata. Non si tratta qui di apologia:  valore apologetico un siffatto paragone evidentemente non può averlo, anzi.

   Storicamente tuttavia la spiegazione del fatto può esser ben diversa: essendo prassi comune che non fosse sottoposto ad alcun limite il saccheggio d’una città presa d’assalto. “Se i crociati entrando a Gerusalemme nel 1099 o a Costantinopoli nel 1204 si comportarono nel tristo modo che sappiamo, non si deve credere che questo sia avvenuto solo perchè, in quei casi, essi avevano a che fare con infedeli o con scismatici, o perchè la causa per la quale avevano combattuto li avesse fanatizzati. La violenza dei saccheggiatori rientrava in una sorta di liturgia che non aveva niente a che fare col furor della battaglia” (40). Essa infatti fu ripetuta e in Levante, per molte volte, anche dall’altra parte: a Edessa espugnata nel 1144 da Zenki padre di Norandino (41), a Gerusalemme indifesa (42) devastata per un mese dai Turchi Covaresmii nel 1244 (43), a Tripoli e Acri prese dai Mamelucchi nel 1289 e nel 1291 (44); e in occidente: oltre i due cruenti saccheggi ricordati dal Cardini, quello celeberrimo di Roma del 1527 e quello di Brescia conquistata nel 1512 dalle truppe di Gastone di Foix duca di Nemours (noto per virtù cavalleresca!) si può aggiungere, in tempi più vicini alle nostre storie, un altro sacco di Roma non meno efferato, fatto nel 1084 dai Normanni (chiamati dal papa Gregorio VII per liberarlo!) e il caso forse ancor più paradossale di Messina saccheggiata nel 1190 dai Crociati inglesi e francesi, sebbene fossero in lotta tra di loro (45).

  Se una città o una fortezza si arrendeva era prassi altrettanto comune di contrattare un riscatto per rilasciare i prigionieri, che in caso di mancato accordo potevano essere uccisi (46) o venduti come schiavi. Così fece Saladino a Gerusalemme nel 1187, celebrato per questo come umano e misericordioso (47): le trattative con l’esperto Baliano d’Ibelin, esponente del partito dei baroni locali avverso al re Guido di Lusignano che era stato sconfitto e fatto prigioniero a Hattin, si conclusero dopo vari mercanteggiamenti (48) con l’accettazione della tariffa richiesta dal vincitore: 10 denari d’oro per ogni uomo, 5 per le donne e 1 pei fanciulli (49). Non risparmiò invece lo stesso Saladino, tra i prigionieri di Hattin, i monaci cavalieri, “perchè erano i più bellicosi fra tutti i Franchi”(50) e neanche Rinaldo di Châtillon, che fu da lui ucciso (di sua mano, secondo alcune fonti) come traditore, accusato di aver assalito delle pacifiche carovane violando apertamente una precedente tregua (51). 

   Non molto differisce questa prassi da quella stessa dell’antichità con i suoi saccheggi e i suoi massacri, e sopra tutto con l’uso generale (da jus gentium (52)) di ridurre schiavo il nemico superstite con le sue donne e i suoi figli; nè poteva l’alto medio evo, se non l’avevano fatto gli antichi (nonostante varie affermazioni di ragionevole umanità (53)), contrapporre a siffatta prassi dei limiti normativi, cioè una vera dottrina morale e giuridica della guerra giusta: “le climat intellectuel de cette époque n’est guère favorable à l’éclosion de la pensée théorique, quel qu’en soit l’objet” (54): è un’età di primitivismo, come abbiamo già osservato (55). Solo la rinascita giuridica del secolo XII produce per la prima volta una riflessione teoretica sull’argomento (56); di cui una prima sistemazione viene spesso individuata nel Decretum del monaco Graziano, composto a Bologna intorno al 1140 (dunque in pieno svolgimento delle Crociate), ma secondo Haggenmacher intendeva costui piuttosto risolvere una questione più particolare, quella della liceità dell’uso della forza da parte delle autorità ecclesiastiche contro gli eretici (57). Tuttavia il modo in cui Graziano ordina i testi patristici (Sant’Agostino (58) e Sant’Isidoro) diventerà classico nella futura formulazione della dottrina, che si trova nel secolo seguente in canonisti come lui, quali  Enrico da Susa cardinale Ostiense, il papa Innocenzo IV e San Raimondo da Pennaforte; e sopra tutto in San Tommaso d’Aquino (59), importante anche perchè resterà come base  per le future fervidissime discussioni  svolte sul tema dai teologi della seconda scolastica. Tutto ciò “constitue… une tentative de justifier au plan de la morale chrétienne la pratique quasi-endémique de la guerre médiévale, tout en lui imposant des bornes aussi étroites que possible” (60).

   Non sempre, l’abbiamo già accennato (61), si è così interpretata la morale cristiana; e anche oggi può avvenire che sia sostenuta quest’obiezione senza dubbio consistente, perchè appoggiata a luoghi evangelici molto importanti (62), che dovrebbe il cristiano, puttosto che escogitare “dei criteri giustificativi tanto larghi (e tanto genericamente formulati) da togliere alla regola gran parte del suo contenuto interdittivo”, “condannare senza appello (non questo o quel proposito guerresco, non questo o quell’avversario del momento), ma ‘la guerra’” (63): essendo la regola di cui si parla quella proclamata sì “a gran voce” per esempio dal cardinale Ostiense “regulariter bellum injustum est et damnatum” (64), ma poi vanificata dalle eccezioni sia presso i canonisti sia presso i civilisti sia presso i teologi e il magistero della Chiesa. E ci si domanda se una parte che si sente formalmente autorizzata a condurre una guerra giusta al contrario della controparte, non possa per questo essere indotta “ad esaltare oltre misura il proprio buon diritto” arrivando a demonizzare l’avversario (65). Di conseguenza e a maggior ragione sono da condannarsi le Crociate (66).

   Critiche serie, ma non devono far trascurare una considerazione fondamentale. Non può il messaggio di Cristo, proprio per il suo carattere spirituale, surrogare un governo organizzato: “una lunga serie di statisti cristiani, da Paolo ad Agostino, dovette lottare per far comprendere le esigenze di un ordine sociale e politico immanente al mondo”; lottare perchè “molti Cristiani rischiavano seriamente di non capire più l’importanza di questo tipo di ordine”. È l’immenso problema della “relazione fra la vita dello spirito e la vita nel mondo” (67). Poichè la legge del Nuovo Testamento, per San Tommaso, ordina i moti interiori dell’animo secondo il discorso della montagna che è il programma della vita cristiana (68); è  principalmente una legge infusa (indita), è la stessa grazia dello Spirito Santo; essa “n’est pas du type de ce que les juristes nomment loi”. Non bisogna dunque “faire usage des conseils de perfection évangélique à contresens, contre son prochain et l’ordre public, en les transportant indûment dans l’office du juge terrestre, qui est le partage des biens matériels en vue d’un ordre provisoire. Aujourd’hui, cela paraît être la volupté de la presse chrétienne de juger, de ‘condamner’ les richesses, les violences, les dominations des autres, au nom des préceptes absolus évangéliques de pauvreté, de charité et de non-violence; mais elle ne fait que mal juger, et au profit d’autres violences et d’autres dominations, parce qu’il y a toujours des violences, des richesses, des inégalités sociales, dans l’ordre temporel. Le problème est de les arbitrer” (69). Ed ecco che a un crescente bisogno di ordine, con la rinascita delle città e del commercio nel secolo XI e XII, risponde la riscoperta del diritto romano: bisogno “de mesures strictes des limites des possessions et des conséquences des contrats, de fixation du mien et du tien”; e con lo stesso animo dei giuristi anche San Tommaso, che pure mette al vertice di tutto la lex aeterna ereditata da Sant’Agostino, riscopre il Cicerone del De officiis con la sua “morale substantielle chargée de devoirs précis”, e Aristotele, e Ulpiano (70). Questo bisogno di misure precise ha determinato secondo me anche la dottrina de bello, e che questo volesse significare legalizzazione dell’arbitrio non direi proprio (71) (quanto poi nei fatti siasi conformata la prassi ai vari precetti è altra questione, aperta per ogni campo del diritto). Se per esempio nella Raymundina (scritta poco dopo il 1220) e nei canonisti successivi si delinea una distinzione tra nocentes e innocentes tendente a escludere questi ultimi dalla violenza bellica (72), ciò non può essere estraneo a quello spirito promosso dalla Chiesa che aveva portato alla Pace di Dio (protezione, come s’è visto (73), di certe categorie) e alla formazione dell’etica cavalleresca; ed è questa senza dubbio l’origine storica della protezione giuridica della popolazione civile nella guerra moderna (74).

   E) CHESTERTON E LA FINE DEL MEDIO EVO.  –  Questa modesta esplorazione dei fatti e delle idee ci permette di comprendere e se è il caso approvare certi giudizi storici dati da Chesterton. Prendendo lo spunto dai leoni scolpiti sulla porta di santo Stefano a Gerusalemme parla di Riccardo Cuor di Leone, verso il quale condivide la simpatia che abbiamo notato in Chateaubriand (75). Infatti dal paragone con uno qualsiasi dei soldati inglesi che occupano la Palestina risulta che “la sua superiorità non era morale, ma intellettuale; consisteva nel sapere dov’era e perchè si trovava in quel paese… Potremmo ritenere che abbia avuto torto o ragione in questa specifica lotta, potremmo giudicarlo innocente o senza scrupoli per i metodi che scelse; tuttavia non c’è nessun dubbio che egli credeva non solo di conquistare, ma di riconquistare un regno. Non era come chi attacca perfetti estranei in un’isola prima di allora inesplorata… non poteva vantare nessun ideale d’innovazione imperiale che induce i pionieri più illuminati a sterminare tribù o a distruggere repubbliche per una miniera d’oro o un giacimento petrolifero” (76). Non è stravagante questo paragone, per quanto pieno della solita ironia, con la colonizzazione delle Americhe e d’altri continenti (77): anche gli storici di professione hanno discusso a lungo su un presunto colonialismo delle Crociate. Alcuni l’hanno affermato, altri (più recentemente, sopra tutto) l’hanno negato, ovviamente per considerazioni socio-economiche anche diverse da quelle di Chesterton (78). Sul piano politico mi sembra fuori discussione che mentre il colonialismo, come l’intendiamo, è nato dall’espansione degli stati moderni, al contrario da quegli stati allora in formazione furono le Crociate, come dicevamo sopra (79), soffocate.

   Specialmente nel capitolo in cui narra e commenta la sconfitta di Hattin, che è il penultimo del libro (80), egli esprime il suo giudizio sui “capitani cristiani che vi contribuirono”, che “erano sicuramente uomini il cui valore morale era diverso da quello del buon duca Goffredo; le loro personalità erano al confronto  contraddittorie e perfino misteriose”. Accusato di esser troppo furbo il conte Raimondo III di Tripoli, ma i consigli militari che diede in battaglia erano leali e fondati (purtroppo Guido non li ascoltò); accusato di essere un violento ladrone Rinaldo di Châtillon, che forse era meglio di quel che dicevano i suoi nemici;  ma “il fatto stesso che le fazioni si scambino queste accuse dimostra un certo declino dai primi tempi della supremazia del Buglione”, da nessuno mai accusato di essere traditore o ladro (ma qui non considera il nostro autore che non  potendo le due fazioni così fieramente opposte esistere al tempo di Goffredo, essendo  nate dipoi dalla contrapposizione tra vecchi e nuovi Crociati, come abbiamo visto (81), per accuse anche calunniose non v’era ancora motivo). Infine altri due giudizi negativi: era un fanatico Gerardo di Rideford, un mediocre il re Guido che, rifiutato il consiglio di Raimondo, dando retta a Gerardo decise di attaccare a tutti costi (82).

   4 luglio 1187: l’ultima disperata carica dei Franchi stremati dalla sete, poi la disfatta, la prigionia, la perdita della reliquia della Santa Croce, secondo Chesterton segna la fine della cavalleria e la fine del medio evo. Era già il secondo medio evo, come abbiamo detto, quello della rinascita dopo l’isolamento e la miseria dei secoli bui: muore giovane dunque. Ciò che vien dopo, e in Terra Santa e altrove, è senza gloria. È un giudizio storico  molto ardito ma degno, secondo me, di ben seria discussione. A mio parere, almeno se consideriamo la teologia, la filosofia, il diritto, la santità di Francesco, Domenico, Antonio, è difficile negare che il vertice della civiltà medievale sia nel secolo seguente. Forse può valere come limite simbolico l’anno 1300, già da altri indicato per ragioni connesse con la fine delle Crociate (83). È l’anno del primo giubileo, non a caso legato alla visione di Dante. Dopo non c’è altro che guerra continua tra gli stati ormai formati; l’impero d’oriente praticamente finito e quello d’occidente ridotto a una larva; l’espansione turca che non incontra una vera opposizione; il Petrarca (e poi gli altri umanisti) per cui la tradizione romana non conta nel senso di Dante ma come “possesso privato del filologo” (84).

   Era il medio evo, scrive Chesterton, non il posto giusto ma la strada giusta: fu l’unica età di progresso (85). Questo non vuol dire idealizzare il mondo medievale ma semplicemente comprendere quello moderno: oggi siamo sicuri che è sbagliata la nostra strada. Forse non vedremo con gli occhi della carne la nuova Gerusalemme: ma vedremo la caduta di Babilonia.

A n t o n i o   A n t o n i o n i

Note:

(1) Pellegrini e crociati: Chateaubriand e Chesterton a Gerusalemme.

(2) Chi si avvicina all’argomento scopre che esiste un certo numero di specialisti, i crociatisti, attivissimi in congressi, pubblicazioni e istituzioni varie, ai quali spetta di congiungere competenze assai diverse e difficili, oltre ovviamente alla storia generale del medio evo: storia del diritto e della teologia (possibilmente anche musulmana); studio delle fonti, latine, volgari, greche e anche arabe e armene; arte militare ecc. Questo fervore di studi ebbe inizio nel secolo XIX, in  ambiente culturale romantico, avendo come massima espressione il Recueil des historiens des Croisades, pubblicato dal 1841 al 1906 in 16 tomi (i primi due, a cura del conte A. Beugnot,  contengono le Assises de Jérusalem, raccolta di giurisprudenza a cui accenneremo poco sotto).

(3) L. Russo, I crociati in Terrasanta, Roma 2018: molto piano e piacevole ma con note e bibliografia che occupano più di un terzo del volume.

(4) L. Marino, La fabbrica dei castelli crociati in Terra Santa, Firenze 1997, p. 14.

(5) Nel riconoscere meglio per quali caratteri, sta la novità della proposta, che d’altronde aderisce alla partizione solita di alto e basso evo medio. 

(6) P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma – Bari 20105,  p. 16.

(7) Ib., p. 152.

(8) Non è un  mondo d’inumana barbarie tuttavia, secondo il Grossi, che anzi ne giudica positivamente la forte autonomia del diritto dal potere politico; il che continua a valere nel basso medio evo. “La civiltà medievale non sentì l’esigenza di colmare il vuoto lasciato dal crollo dell’edificio statale romano” (ib., p. 44).

(9) Ib., p. 182 ss. Persino  chi esalta più di ogni altro la sacralità dell’impero universale, Dante, non ha difficoltà a riconoscere la peculiarità delle esigenze giuridiche locali (mon. I, 14, 4).

(10) Cf. L. Sorrenti, I sovrani crociati, Milano 2011, p. 78 (il titolo del libro può forse indurre in errore: non si deve infatti ritenere che il locale ordinamento giuridico sia stato “propriamente il frutto del consapevole esercizio di un potere normativo inteso come emanazione della volontà dispositiva del vertice della monarchia”, ib.). Uno studio recentissimo: G. Stanco, Le Assise di Gerusalemme, Soveria Mannelli 2020.

(11) La quale ha stretto rapporto con ciò che si diceva poco sopra del diritto: il periodo dal 1060 al 1140 fu definito dal Fournier “un tournant de l’histoire du droit” (cf. Grossi, op.cit., p. 116 s.). San Gregorio VII fu papa dal 1073 al 1085; si deve  a lui la prima idea d’una spedizione militare per liberare il S. Sepolcro.

(12) N.T. Eph. 6, 10 – 20. La metafora dell’armatura Dei (πανοπλία τοῦ Θεοῦ) continua con lo scutum fidei, la galea salutis, il gladius spiritus. Diventò allegoria  poetica, com’è noto, nella Psychomachia di Prudenzio, che ebbe una fortuna straordinaria nel medio evo.

(13) Cf. F. Cardini, Guerre di primavera, Firenze 1992, p. 209 ss. A tale mutamento ha dedicato particolare attenzione questo studioso: aggiungo solo, Id., Quell’antica festa crudele, Milano 19882, p. 32 ss.; Id., in La guerra, le guerre, a cura di F. Cerutti – D. Belliti, Trieste 2003, p. 36 ss.

(14) Cf. Pellegrini e crociati… cit. , nota 36.

(15) Con le ovvie resistenze, e talora ostilità aperta, degl’imperatori d’Oriente e della Chiesa greca;  non molto tempo prima, nel 1054, era stato scomunicato il patriarca Michele Cerulario. Ma ancor maggiori difficoltà doveva suscitare, s’intende, la rivendicazione d’ una supremazia universale anche politica da parte del Papato: Gregorio VII “voleva trasformare il primato religioso, morale e spirituale in un primato politico del papato come potestà sovrana internazionale” (A. Dempf, Sacrum imperium, tr.it., Messina – Milano 1933, p. 121; proprio ciò, secondo questo studioso, “lo ha condotto alla più grande azione politica del medioevo, al movimento delle Crociate”: ib., p. 122; ancora, a p. 124, è definita la Crociata come “la più grande idea politica del suo tempo”: suo cioè di Gregorio, ma fu attuata dai successori come Urbano II). 

(16) Arrivò a tal punto di stoltezza da provocare  l’abbandono della spedizione da parte del re di Gerusalemme, Giovanni di Brienne, seguito  da molti cavalieri, e da rifiutare l’offerta dei Luoghi Santi fattagli dal sultano al-Kamil (quello che ricevette S. Francesco) pur che si ritirasse dall’Egitto: cf. Russo, op.cit., p. 146 s. Ma siamo nel 1218-21, già nel tempo più tardo e stanco delle Crociate. 

(17) Cf. Grossi, op.cit., p. 41 ss. (che non vuol dire giudizio negativo: cf. sopra, nota 8).

(18) Cit. da F. Calasso, Medioevo del diritto, I, Milano 1954, p. 488. E continua: “et si dissonant, quilibet potest in sua jurisdictione, non in alterius potestate”; propriamente dunque si parla qui della rispettiva competenza giuridica delle due potestà; il che tuttavia non può non aver effetto sull’esplicazione di esse in campo politico ed eventualmente militare.

(19) Ciò è stato osservato almeno in riferimento all’imperatore Enrico IV, l’avversario delle pretese di Gregorio, che essendo poi papa Urbano II “rimase inattivo in Verona alla partenza della prima crociata”, sicchè non si potè raggiungere “la corretta coordinazione di sacerdotium e imperium”; esigenza che fu compresa solo dal Barbarossa ma troppo tardi (Dempf, op.cit., p. 124). 

(20) F. Cardini, Europa e Islam, Roma – Bari 2003, p. 109. La grande spedizione infatti, da lui promossa con tanto assidua cura,  deviata a Zara e poi a Costantinopoli per l’interesse dei Veneziani, non raggiunse la Terra Santa (cf. anche Russo, op.cit., p. 127 ss.).

(21) Cf. G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, tr.it., Torino 1968, p. 331; e specialm. p. 376, nota 40. Si parla qui di Alessio I (e già la figlia Anna Comnena sospettava il normanno Boemondo di volersi impadronire di Costantinopoli: cf. Russo, op.cit., p. 22); ma l’ostilità in seguito aumentò, sino all’atroce massacro dei Franchi residenti nella capitale, avvenuto nel 1182, dopo di che Isacco II temendo rappresaglie si alleò col Saladino contro i Crociati, e reciprocamente Federico I Barbarossa con Serbia e Bulgaria nemiche di Bisanzio (cf. Ostrogorsky, op.cit., p. 365 s.); sicchè la diversione della quarta crociata contro Costantinopoli “è il risultato quasi inevitabile degli avvenimenti precedenti” (ib., p. 372). Ma le feroci lotte intestine della fine del secolo XII avevano già deciso, si può dire, l’autodistruzione dell’impero bizantino. In pochi anni finirono morti ammazzati quattro sovrani: Alessio II e sua madre Maria di Antiochia nel 1182, Andronico I nel 1185, Alessio IV nel 1204; inoltre Isacco II accecato e imprigionato dal fratello Alessio III nel 1195. Ciò non impedì, in varie pause di distensione, unioni matrimoniali con le dinastie franche di Terra Santa.

(22) Il termine, ovviamente,  è qui usato nel senso feudale, che è quello originario, non nel senso corrente nato col Bodin. Quelle formazioni politiche (regno di Gerusalemme, principato di Antiochia, contee di Edessa e di Tripoli) non si possono considerare degli stati in senso moderno, anche se non erano nè colonie nè feudi dell’imperatore o del papa o di re europei (solo Antiochia fu costretta talvolta a riconoscere dipendenza feudale da Bisanzio). 

(23) Cardini, Europa e Islam cit., p. 95. Un esempio l’abbiamo visto sopra, nota 16, ma molti altri se ne trovano leggendo le storie.

(24) G. Ligato, Sibilla regina crociata, Milano 2005, p. 21 (il libro è documentatissimo ma si legge come un romanzo: narra passo per passo la breve vita di questa figlia, sorella e madre di tre re di Gerusalemme, e regina lei stessa dal 1186 al 1190, in mezzo agli intrighi di una corte in cui il ricorso al complotto, al tradimento e al veleno faceva invidia ai peggiori momenti dell’impero romano: così a p. 185).

(25) Ib., p. 193. V’è tutta una serie di personaggi negativi, a cominciare da Guido di Lusignano, secondo marito di Sibilla, “uomo dotato in misura prodigiosa della capacità di creare contrasti” (ib., p. 157; pare che fosse giunto in Terra Santa in fuga dalla giustizia, accusato di omicidio e ribellione: p. 90); Gerardo di Ridefort, gran maestro dei Templari, “che in tutta la sua carriera non prese una decisione opportuna” (ib., p. 195); dell’energumeno Rinaldo di Châtillon si dirà sotto. Ma dei peggiori misfatti venivano regolarmente accusati i principali esponenti di ciascuno dei due partiti dai cronisti contemporanei che tenevano pel partito avverso, sì che non è facile oggi riconoscere la verità. Persino, quando fu ucciso da due sicari della setta musulmana degli Assassini il marchese Corrado  di Monferrato, che aveva sposato la sorella di Sibilla, fu sospettato di essere mandante del delitto e il prode Riccardo d’Inghilterra (cf. Russo, op.cit., p. 113; Ligato, op.cit., p. 241) e anche Guido, che fu poi sospettato pure della morte della moglie Sibilla e delle figlie (cf. Ligato, op.cit., pp. 230. 239). Nota è, poi, l’accusa di tradimento rivolta al conte Raimondo III di Tripoli dopo Hattin (cf. Russo, op. cit., p. 107; Ligato, op.cit., p. 199 ss.).

(26) Il termine è usato, non so se per primo, da F. Gabrieli, in Storici arabi delle Crociate, a cura del medesimo, Torino 1957, p. 201.

(27) L’espressione è di P. Cevasco, Il corpo cristiano,  Soveria Mannelli 2009,  p. 307, che qui segue strettamente il Dempf.

(28) Ib., p. 317.  Infrange ulteriormente l’”assetto simbolico” precedente l’imperatore e re di Sicilia Federico II, che “si sforza… di passare dalla sovranazionalità di diritto del regnum come carisma del corpo mistico, alla costruzione in senso statale di un dominio su territorii, che dell’istituto imperiale conserva solo le pretese giurisdizionali e la capacità di reclamarle su uno scacchiere incredibilmente esteso” (ib.; cf. Dempf, op.cit., parte 1, cap. 8). Solo accidentalmente infatti, di quei territori venne a far parte, per matrimonio con Isabella di Brienne, anche la Terra Santa.

(29) Enrico I re d’Inghilterra, a cui era stata offerta la corona di Gerusalemme, rischiò la scomunica pur di non partire crociato (cf. Ligato, op.cit., p. 140 ss.); fu scomunicato davvero, com’è noto, il predetto Federico II, nipote del Barbarossa, che avendo fatto il voto nel 1215, tardò tredici anni a partire (si sa che il voto implica un obbligo strettissimo di adempimento: cf. per es. Thom. Aq. S.T. II-II, q. 88. a. 3; e il relativo commento: P. Lumbreras,  De iustitia, Romae 1938, p. 252 ss.). Chi s’impegnò più valorosamente fu il re Riccardo Cuor di Leone figlio d’Enrico, che nel 1191 vinse il Saladino ad Arsuf ma non potè tuttavia ricuperare Gerusalemme (sotto di lui si aggravò, con esito fatale per la Terra Santa, l’ostilità fra Plantageneti e Capetingi che già aveva trattenuto il padre in Inghilterra: cf. Cardini, Europa e Islam cit., p. 108 s.; Russo, op.cit., p. 119 ss.).  Tra i cristiani d’oltre mare “di gran lunga il migliore” (Ligato, op. cit., p. 158) si dimostrò Baldovino IV fratello di Sibilla, il re lebbroso, morto nel 1185 all’età di ventitrè anni. Anch’egli sconfisse sul campo il Saladino.

(30) Sopra, nota 15. 

(31) A. Dupront, Il sacro, tr.it., Torino 1993, pp. 12. 18. 24 etc. Sarebbe dunque la Crociata uno stato eccezionale, anarchico, che non potè mai essere istituzionalizzato nè tanto meno definito in regole (cf. ib., p. 298). Da una ricerca giuridica invece risulta  che s’è formata nel diritto canonico una precisa nozione di Crociata, nata beninteso non dall’opera d’un legislatore ma dalla consuetudine (cf. M. Villey, La Croisade, Paris 1942).

(32) Tale sarebbe “la virtù dell’approccio fenomenologico” (Dupront, op.cit., p. 41, cf. p. 24).

(33) B.Z. Kedar, Crociata e missione, tr.it., Roma 1991. Con particolare cura  esamina la posizione di Giacomo di Vitry  e  di Raimondo Lullo, che pur con una certa evoluzione di atteggiamenti coniugarono una fervida attività di predicazione con un deciso sostegno alla Crociata.

(34) Ib., p. 230 s., che cita S.T. II-II, q. 10, a. 8 (un estratto è riportato  in appendice a p. 271) luogo che secondo me non vuol dire un  allargamento della causa di guerra, anzi dice di più il “prohibere praedicatores hoc praedicare” di Innocenzo, che le aperte persecuzioni, bestemmie e malevola propaganda di cui parla Tomaso: infatti da queste ultime può un governo musulmano benissimo astenersi, mentre vietare la predicazione cristiana era (ed è tuttora, in molti luoghi!) prassi normale. Forse l’Aquinate ha qui in mente più che altro la “nimia infestatio seu oppressio fidelium” del De laude novae  militiae di S. Bernardo (3, 4: luogo riportato dal Kedar, p. 269).

(35) G.K. Chesterton, La nuova Gerusalemme, tr.it., Torino 2011, p. 248 s.

(36) Ib., p. 250.

(37) Ib., p. 253. È il luogo della montjoie di cui abbiam parlato a proposito di Chateaubriand (cf. Pellegrini e crociati… cit., § 2). Alla narrazione epica della marcia e della lotta per la città santa sono dedicate le pagine più potenti del libro di Chesterton, insieme col capitolo su S. Giorgio e il drago (cf. ib., § 4), che anzi è ancor più forte secondo me.

(38) Che in particolare parla di “tumultuosa esplosione” del movimento, assenza di distinzione sociale, immense truppe quasi senza un capo (Dupront, op.cit., p. 298 s.).

(39) Chesterton, op.cit., p. 254.

(40) Cardini, Quell’antica… cit., p. 395.

(41) Cf. Russo, op.cit., p. 70.

(42) Era stata riottenuta nel 1229 da Federico II, com’è noto, ma a patto di lasciarla priva di mura.

(43) Cf. ib., p. 157.

(44) Cf. ib., pp. 179. 182; ad Acri, contro la parola data di risparmiare gli ultimi difensori che si erano arresi. Lo storico Abu-al Mahasin (in Storici arabi… cit., p. 330, cf. p. 209 s.) la presenta come vendetta del massacro di prigionieri fatto cent’anni prima da Riccardo d’Inghilterra, “irritato per i temporeggiamenti di Saladino nella trattativa per il loro riscatto” (Ligato, op.cit., p. 234). Simili vendette anche, purtroppo, tra cristiani: il fatto del 1204 faceva tragico riscontro a quello del 1182 (cf. sopra, nota 21).

(45) Cf. Russo, op.cit., p. 116 s. (a tale ostilità si accennò sopra, nota 29).

(46) Cf. sopra, nota 44.

(47) Una voce isolata è quella dello storico Imad ad-din che dà una minuziosa descrizione, con perverso compiacimento, di violenze  inflitte alle donne franche (in Storici arabi… cit., p. 153 s.):  non è attendibile secondo Ligato, op.cit., p. 210 s.

(48) Accompagnati, s’intende, da minacce non solo da parte del più forte (l’Ibelin essendo stato lasciato da Guido con poche truppe) ma anche da parte degli assediati, che se costretti a difendersi a oltranza avrebbero distrutto la moschea di al-Aqsa e ucciso tutti i prigionieri saraceni.

(49) Cf. Ligato, op.cit., p. 209. La traduzione del Gabrieli (in Storici arabi… cit. , pp. 135. 149) dà per gli ultimi la cifra di 2 denari.

(50) Questa la motivazione data da Imad ad-din, ib., p. 120. Otto anni prima, tutti i Templari catturati al Guado di Giacobbe sul Giordano, Saladino li aveva fatti segare in due (cf. Ligato,  op.cit., p. 79). Ma dopo Hattin fu risparmiato il gran maestro del Tempio, Gerardo di Ridefort, che rimase prigioniero insieme col re Guido e molti baroni.

(51) Cf. Ligato, op.cit., p. 204. Anche una fonte cristiana (l’anonimo contunuatore di Guglielmo di Tiro) addebita a quell’assalto proditorio  la ripresa delle ostilità e la conseguente caduta di Gerusalemme (cf. Russo, op.cit., p. 194, nota 46).  Non era nuovo Rinaldo a tali scorrerie quasi da guerriglia; in una delle quali essendo stato catturato nel lontano 1161, aveva passato quasi sedici anni prigioniero di Norandino ad Aleppo. 

(52) Cf. inst. I, 2, 2: che significativamente accomuna “bella… et captivitates… et servitutes., quae sunt juri naturali contrariae”.  È evidente il contrasto con la famosa teoria della schiavitù per natura (Arist. pol. I, 1252 a 32 – b 10; 1256 b 23 – 27,  in cui fra l’altro si parla di δίκαιος πόλεμος)  sulla quale cf. per es. V. Goldschmidt, in Schiavitù antica e moderna, a cura di L. Sichirollo, Napoli 1979, p. 183 ss.

(53) Il luogo più importante mi sembra Plat. reip. V, 471 a 9  – b 1: si devono tener per nemici solo τοὺς αἰτίους τῆς διαφορᾶς, non dunque donne e fanciulli; concetto penale della guerra, che si oppone a qualunque forma di guerra totale, e dal quale consegue il  risparmiare gli innocenti (è da notare tuttavia che quei limiti valgono solo tra Greci: οὺδ’ἄρα τὴν Ἑλλάδα Ἕλληνες ὄντες κηροῦσιν…). Ma cf. anche Cic. off. I, 159; Ov. trist. I, 9, 35; etc. È notevole la riserva: “externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui” (August. ind.rer.gest. 3; da confrontare col famoso “parcere subjectis” di Virg.  Aen. VI, 853). Su pace e guerra in rapporto alle concezioni religiose e morali dei Romani gli studi sono ovviamente infiniti: rimando per es. a I. Lana, in Guerra giusta?, a cura di A. Calore, Milano 2003,  p. 3 ss.; F. Sini, ib., p. 31 ss. (tra l’altro sul concetto di bellum justum, sul quale “le testimonianze antiche… non sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto… a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale”: ib., p. 64 s.); A. Valvo, ib., p. 77 ss. Sul  “jus…quod nunc fetiales habent…, quo res repetuntur” (Liv. I, 32, 5) cf. per es. M. Bretone, I fondamenti del diritto romano, Roma – Bari 2001, p. 50 ss.

(54) P. Haggenmacher, Grotius et la doctrine de la guerre juste, Paris 1983, p. 18.

(55) Sopra, § A.

(56) Traccia sinteticamente la storia delle “morfologie giuridiche” della guerra A.A. Cassi, in Guerra giusta? cit., p. 101 ss. (bibliografia utile per approfondire a p. 101 s., nota 2, alla quale bisogna aggiungere l’opera fondamentale del Haggenmacher).

(57) Cf. Haggenmacher, op.cit., p. 26 ss.

(58) Contro l’”image reçue” che vede già in S. Agostino una prima formulazione della dottrina della guerra giusta cf. ib., p. 11 ss.

(59) Specialm. S.T. II-II, q. 40, a. 1. Com’è noto vi si pongono tre requisiti, tutti e tre necessari (bonum ex integra causa…) perchè la guerra sia giusta: auctoritas principisjusta causa intentio recta.

(60) Così conclude la sua accurata  analisi dell’argomento Haggenmacher, op.cit., p. 49.

(61) Sopra, § A, si è fatto il nome di S. Pier Damiani; ma si può risalire sino a Tertulliano, che predica l’obbligo dei cristiani di non negare mai il Vangelo neanche in istato di necessità o per legittima difesa: dunque rifiuto assoluto di portare le armi (Tert. cor. 12, 4). Ma già molto prima di Costantino erano entrati dei cristiani nell’esercito romano: cf. per es. G. Ricciotti, La “era dei martiri”, Roma 1953, § 36 (l’aveva riconosciuto nell’Apologeticum lo stresso Tertulliano); Haggenmacher, op.cit., p. 15. E nel Vangelo stesso che dire dei soldati a cui si prescrive “estote contenti stipendiis vestris”? (N.T. Luc. 3, 14): è un argomento di S. Agostino, ripetuto da S. Tommaso (ult.l.cit., sed contra).

(62) N.T. Matth. 26, 52 “omnis qui acceperit gladium, gladio peribit”; 5, 39; Rom. 12, 19. Sono riferiti nei primi due argomenti del “videtur quod bellare semper sit peccatum” (Thom.Aq., l.cit.: risponde, come anche nell’ad tertium e nel sed contra appena citato, con ragionamenti di S. Agostino).

(63) P. Bellini, Il gladio bellico, Torino 1989, p. 22 s. Il titolo allude a S. Tommaso (l.cit., c., che cita a sua volta S. Paolo): attributo del principe è  il gladius bellicus  contro i nemici esterni, il gladius materialis contro i perturbatori interni. 

(64) Cf. Bellini, op.cit., p. 21.

(65) Ib., p. 22. Contrario a tale tesi Cassi, l.cit., pp. 102, nota 3; 117, nota 51. 

(66) Cf. Bellini, op.cit., p. 107 ss.

(67) Cf. E. Voegelin, Ordine e storia, I, tr.it., Milano 2009, p. 228. L’argomento è d’importanza massima e non può qui essere neanche minimamente riassunto; rimando anche a Cevasco, op.cit., p. 320 ss., su S. Tomaso come scopritore del rapporto analogico tra le ragioni eterne e  l’agire umano come ordinatio, che le scorge nelle cose create.

(68) S.T. I-II, q. 108, a. 3: cf. M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Paris 20132, p. 169; Dempf, op.cit., p. 339.

(69) Villey, op.cit., p. 169 s. (corsivi testuali).

(70) Ib., p. 156 s. 

(71) Non considero qui un’altra critica, questa manifestamente ingiustificata: per cui col requisito dell’intentio recta (cf. sopra, nota 59) si costruirebbe un ”rigido impianto interioristico”, pretesto per le azioni più arbitrarie, in contradizione con una presunta tendenza della morale cattolica a privilegiare l’opus operatum contro l’opus operantis elencando azioni materiali umane intrinsecamente buone o cattive (Bellini, op.cit., p. 29). Ma basta leggere il terzo articolo della seconda quaestio disputata de malo (cf. anche S.T. I-II, q. 20, a. 1) per vedere come sia ben più complessa la dottrina cattolica, e degna di considerazione più seria. È curioso poi che dopo tale accusa di soggettivismo sembri lo studioso lamentare lui stesso il rifiuto (in generale, non nel caso della guerra) della “tesi (appunto interioristica) della dimensione esclusivamente spirituale dell’atto etico”, che tiene per indifferenti le opere e le circostanze.

(72) Raymundi de Pennaforte Summa de casibus poenitentiae,  II,  17: cf. Haggenmacher, op.cit., p. 263 ss., che ricorda il precedente di Platone (sopra, nota 53).

(73) Sopra, § A.

(74) Cf. Haggenmacher, op.cit., p. 268; il quale nota che in verità era più ristretto dell’odierno concetto di popolazione civile quello di innocentes.  E si veda  presso lo stesso studioso la minuziosa trattazione degli sviluppi successivi della dottrina sino a Grozio, passando per la seconda scolastica (es. F. de Victoria De jure belli , q. 4, pars 2, 1 “etiam in bello contra Turcas non licet occidere infantes. Patet, quia sunt innocentes. Immo nec feminas…”).

(75) Pellegrini e Crociati… cit., § 2.

(76) Chesterton,  op.cit., p. 222 s.; cf. p. 247. 

(77) Le repubbliche a cui si allude sono a quanto pare quelle dei Boeri.

(78) Tra i primi Kedar, op.cit., p. 124 s., sulle orme del suo maestro J. Prawer; tra i secondi Russo, op.cit., p. 45 ss.; e per la bibliografia p. 221 ss.

(79) § B.

(80) P. 263 ss. È seguito da quello sul sionismo, di cui abbiamo detto (Pellegrini e crociati… cit., § 4). Altrove, parlando della prima crociata,   dà un giudizio elogiativo su Goffredo di Buglione (p.  236 ss.) e su altri due personaggi pure noti ai lettori del Tasso: Raimondo di Tolosa, che riuscì a salvare dall’eccidio un certo numero di musulmani (p. 255) e Tancredi d’Altavilla che almeno ci provò anche se la folla non gli diede retta (ib.; cf. p. 279). 

(81) Sopra, § B. Tutti i personaggi qui nominati, eccetto Raimondo che era il capo del partito avverso, appartenevano al partito dei nuovi arrivati, anche Rinaldo che era in Terra Santa da trent’anni (ma più di metà li aveva passati in prigione: cf. sopra, nota 51).

(82) Cf. anche Russo, op.cit., p. 106 s.; Ligato, op.cit., p. 199 s., che più o meno concordano nel giudizio sull’errore tattico.

(83) Cf. Pellegrini e crociati… cit.,  nota 42.

(84) Così Dempf, op.cit., p. 442.

(85) Aveva già scritto che “progresso dovrebbe significare che noi siamo sempre in cammino verso la Nuova Gerusalemme; significa invece che la Nuova Gerusalemme cammina allontanandosi sempre da noi”, dalla realtà distorta della nostra epoca  (G.K. Chesterton, L’ortodossia, tr.it., Brescia 19556,  p. 136).

Visits: 440