Dante riscattato

Dalla seconda alla terza cornice del “Purgatorio”. Il canto XV tra poesia didascalica e poesia figurativa. Una nuova lettura oltre le secche di certa critica

Curiosa la sorte critica del canto XV del Purgatorio. Bello? Brutto? Canto di passaggio “neutro”? Canto per nulla o poco emozionante? Si tenga conto che solo un terzo circa dei versi di questo canto presenta una narrazione figurativa, mentre il resto è costituito da esposizioni scientifiche e didascaliche.

Dante (Alighieri, 1265-1321) e Virgilio (P. Virgilio Marone, 70 a.C.–19 d.C.) camminano verso Occidente colpiti dal sole, ma a un certo punto – dopo un inciso scientifico sulla rifrazione pronunciato dal primo – la luce aumenta di intensità. È quella di un angelo, come spiega Virgilio, che li invita a salire una scalinata. Iniziato il cammino, sentono dietro di sé cantare «Beati misericordes». Mentre procedono, a Dante sorge un dubbio sulle parole «divieto» e «consorte» pronunziate da Guido del Duca nel canto precedente a proposito della proprietà e dell’invidia che ne può derivare. Virgilio spiega allora a Dante, in modo molto articolato, che i beni terreni, dovendo essere divisi con altri, implicano una riduzione (“divieto”) della parte spettante a ciascuno (“consorte”), innescando così la cupidigia in chi voglia invece possedere tutto egoisticamente.

Le parole di Virgilio richiamano un passo della Summa Theologiae (II, I, 28) di san Tommaso d’Aquino (1225-1274): «Per difetto di bontà, accade che certi beni minori non possono per intero essere posseduti da molti; e dal desiderio di tali beni è causata la gelosia dell’invidia».

Dopo le delucidazioni di Virgilio, entrambi i poeti giungono alla terza cornice. Qui Dante, rapito come in estasi, ha tre visioni in cui compaiono esempi di mansuetudine, la virtù che si contrappone all’ira, il vizio da cui ci si purifica proprio in tale cornice.

Il primo esempio è il ritrovamento, dopo tre giorni di ricerche da parte di Giuseppe e di Maria, di Gesù dodicenne fra i dottori del Tempio. La protagonista della visione è Maria – sempre richiamata per prima negli esempi di virtù esaltata di tutte le cornici ‒ che, invece di mostrarsi adirata, con gesto dolce di madre, dice: «…Figliuol mio,/ perché hai tu così verso noi fatto?» (c. XV, vv. 89-90).

Il secondo esempio, ricavato dal mondo classico, è riferito a un giovane ateniese che, innamorato della figlia di Pisistrato, tiranno di Atene, incontrandola per strada, la baciò pubblicamente. La madre, adirata, chiese al marito vendetta dell’oltraggio, al che Pisistrato rispose: «Che faremo noi a chi ci odia, se da noi vien condannato chi ci ama?».

Il terzo esempio è infine tratto dagli Atti degli Apostoli: il martirio di Santo Stefano. I Giudei, adirati contro il giovane Stefano per la sua predicazione, lo cacciarono dalla città e lo lapidarono. Ma, mentre si accasciava, volti gli occhi al cielo, Stefano chiese a Dio perdono per i propri uccisori.

Dopo che Dante ha fatto cenno a Virgilio di queste visioni, i due poeti entrano in una nube di fumo denso e acre che toglie loro la vista e l’«aere puro». Il canto si chiude quindi con il contrappasso della terza cornice: l’ira è come un fumo nero che acceca.

A partire da Niccolò Tommaseo (1802-1874) fino a Benedetto Croce (1866-1952), questo canto, considerato troppo didascalico, è stato classificato tra i meno belli della Commedia, e ne sono stati apprezzati solo passi isolati o “schegge”, si dice, di vera poesia. In realtà, se non vi fosse poesia didascalica la Commedia non sarebbe quello che è.

La critica successiva a Croce ha per fortuna corretto il tiro e così anche il canto XV è stato, almeno in parte, rivalutato. Si tenga presente ciò che Dante scrive nel Convivio (IV, II, 18): «L’anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello». Ora, se la Commedia stessa è per natura didascalica, ci si dovrebbe sbarazzare, nella lettura, di ogni romanticheria, entrare nella mentalità medioevale e riconoscere che anche nelle parti didascaliche vi è una doppia emozione del poeta: la gioia di avere appreso e l’ansia di fare correttamente apprendere. Non per questo si devono o si possono trascurare le “schegge” di poesia emozionale ed estetica, ma il conoscere ‒ «pane degli angeli», come è detto nel Convivio ‒ è la méta dell’uomo, poiché in esso consiste – imperfettamente sulla Terra, perfettamente in Cielo – la felicità umana.

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