Fuga dalla virtù

Lo scrittore Eugenio Corti (1921-2014) parlava di «imbestiamento» della natura umana. Un canto della “Divina commedia” lo ha anticipato

Dopo il colloquio, nel canto XIII, tra Sapìa Salvani (1210 ca.-1278 ca.) e Dante (Alighieri, 1265-1321), nel canto successivo, e sempre nella cornice degli invidiosi, due anime si sono accorte con stupore che un uomo vivo sta attraversando il Purgatorio. Si tratta di Guido del Duca, dell’aristocratica famiglia ravennate degli Onesti, e del forlivese Rinieri da Calboli, che fu podestà di numerose città. Entrambi vissero nella prima metà del 1200.

È comunque il primo personaggio che chiede a Dante chi sia e questi, poiché il suo nome non è ancora molto noto, risponde solo dicendo di esser nato nella regione attraversata dall’Arno. Inizia allora una invettiva contro gli abitanti delle varie città toccate dal fiume, elencati a mo’ di bestiario medioevale. Quelli del Casentino sono brutti porci, gli Aretini botoli ringhiosi, i Fiorentini avidi lupi, i Pisani astuti come volpi. È tuttavia Firenze la città peggiore che, per il disordine e per la ferocia dei suoi cittadini, è regredita fino ad assomigliare a una selva. Ciò detto, inizia un panegirico dell’antica Romagna, patria delle due citate anime di invidiosi pentiti.

Questa regione era un tempo guidata da un ceto nobiliare dotato di alto sentire, che sapeva affrontare le difficoltà delle imprese e conosceva gli agi della vita, ma che s’ispirava anche a ideali di liberalità, di onore, di difesa dei deboli e di lealtà che ormai anche in Romagna non si riscontravano più. I critici hanno spesso lamentato la mancata figuratività o drammaticità dei personaggi di questa rassegna, ma si deve tenere presente che l’enumeratio, cioè l’elencazione, era una tecnica retorica presente già nei poeti classici e anche nella Bibbia. Molti dei personaggi nominati probabilmente erano poco conosciuti anche ai tempi di Dante, il che significa che il poeta voleva caratterizzare non tanto individui singoli, ma un determinato tempo storico e un intero ceto sociale.

Chi ricordasse l’incipit dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (1474-1533), «Le donne, icavallier, l’arme, gli amori […]», potrebbe pensare a una invenzione ex novo del grande poeta rinascimentale, ma così non è. La fonte di Ariosto è invece proprio Dante, che ai versi 109-111 del canto XIV dice: «[…] le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ‘nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi». E subito dopo richiama Bertinoro, cittadina che si trova tra Cesena e Forlì, e che nella novellistica tradizionale era stata scelta come sede eminente di cavalleria e di liberalità. Ed eccone il perché. Nel tempo a cui si riferiva Dante, Bertinoro era retta dalla famiglia dei Mainardi, e questa e altre famiglie facevano a gara in cortesia nell’ospitare lo straniero che vi giungeva, così che non vollero mai che nella cittadina sorgesse un albergo a pagamento. Fu allora deciso di costruire una colonna con tanti anelli e l’anello a cui l’ospite attaccava la propria cavalcatura corrispondeva a una famiglia, la quale risultava così la prescelta per dare ospitalità. Un’usanza, questa, di cui tutti i cittadini di Bertinoro erano molto orgogliosi. Il tempo descritto da Dante per bocca di Guido del Duca era cronologicamente non molto lontano, ma un tempo mitico e remoto se sentito come mondo ideale.

Forse Dante come laudator temporis acti esagera un po’, ma sicuramente il periodo in cui viveva era assai cupo e in quasi tutte le città gli uomini regredivano verso l’animalità per lo scatenarsi della violenza, indotta dalla cupidigia e dall’invidia, nonché dall’odio dissennato delle fazioni che portava ad atti di ferocia inaudita. E questo perché, dice il poeta, la virtù era da tutti fuggita quasi fosse un serpente pericoloso. Come l’Alighieri nel canto XIII si era inventato le voci volanti per gli esempi di carità esaltata, qui, nel canto XIV, ne fornisce due per l’invidia punita; esempi non riferiti dalle voci dolcemente, ma in modo assordante. Il primo è quello di Caino, che, dopo avere ucciso il fratello per invidia, ebbe poi il timore, esternato a Dio stesso, di essere ucciso a sua volta. L’altro è tratto dalla mitologia: Aglauro, fglia di Cecrope, re di Atene, volle impedire per invidia l’amore della sorella per Mercurio e il dio la pietrificò. Il canto si chiude con l’esortazione di Virgilio, di sapore biblico, a smettere di guardare in basso e a volgere in alto lo sguardo: «Chiàmavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira / mostrandovi le sue bellezze etterne / e l’occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte chi tutto discerne» (vv. 148-151).

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