La generazione delle anime e dei corpi sottili

Nel canto XXV del Purgatorio con le spiegazioni di Stazio

Possiamo dire che un canto eminentemente didascalico sia bello e poetico? È cosa ardua rispondere affermativamente e tuttavia, nella Divina Commedia, canti di questo tipo ci sono e hanno un loro perché.

Dante ha appena visto le anime terribilmente magre dei golosi ed è tormentato da un dubbio: come possono dimagrire quelle anime che, essendo prive di corpi materiali, non hanno la necessità di nutrirsi? Dante teme di risultare molesto esprimendo tale dubbio, ma è incoraggiato da Virgilio che invita Papinio Stazio a dare una risposta precisa. Stazio, tuttavia, non scioglie subito il dubbio di Dante, ma prende la cosa alla lontana esponendo la teoria della formazione del corpo umano con l’anima vegetativa e sensitiva. C’è una parte del sangue, definito “perfetto”, che rimane nel cuore e lì assume una virtù formativa: è cioè destinato al concepimento. Infatti non è assorbito dal corpo, ma, ancora puro. diventa seme, scende negli organi genitali maschili e di lì stilla sopra il sangue femminile nell’utero.

La virtù attiva di cui il sangue maschile è portatore costituisce dapprima l’anima vegetativa come nelle piante e poi quella sensitiva, con la formazione, in questo secondo stadio, degli organi preposti ai vari sensi dell’organismo. Ultimata la sua breve trattazione embriologica (in cui Dante non si scosta dalla scienza del tempo, seguendo sia Alberto Magno che San Tommaso d’Aquino), rimane il punto più delicato, ovvero il passaggio dalla vita animale a quella di uomo razionale. È un punto sul quale – dice Stazio – più di un savio ha errato. Il riferimento è ad Averroè, il filosofo arabo posto comunque da Dante tra gli “spiriti magni” del Limbo. Ora bisogna tener presente che per Averroè l’intelletto possibile, cioè la facoltà del solo uomo di attingere le verità universali, non è stato dato da Dio ad ogni singolo individuo, ma è unico per tutti. È chiaro che ciò implicava la negazione dell’immortalità dell’anima individuale. È dunque questo l’errore del filosofo arabo che Dante per bocca di Stazio vuole correggere. Il tono, nel testo, diviene più alto (“Apri a la verità che viene il petto”): l’anima razionale è emanazione diretta di Dio e le due anime inferiori con quella razionale diventano un’unica anima individuale. Con la morte poi le prime due divengono inerti, mentre la razionale, libera dagli impacci dei sensi, nella sua attività diviene più acuta di prima.

Detto tutto ciò, rimane da sciogliere il dubbio iniziale di Dante e Stazio continua. Con la morte dell’individuo, l’anima può andare alla riva dell’Acheronte, cioè dannata nell’Inferno o alle rive del Tevere, cioè salvata in Purgatorio. Ora la “virtù formativa”, agendo sull’aria che la circonda, forma con questa un corpo aereo del tutto simile al corpo vivo. Il corpo aereo (o sottile) si conforma poi secondo i desideri e le sensazioni dell’anima (detta anche ombra, in quanto ha figura, ma non consistenza) e questo è il motivo per cui Dante si meraviglia. A dire il vero la spiegazione non è proprio esaustiva, dal momento che non ci viene spiegato “come” il dimagrimento avvenga e fino a che punto.

Tutto il discorso di Stazio avviene durante il cammino che porta alla settima e ultima cornice, quella dei lussuriosi. I penitenti camminano in una cortina di fuoco proveniente dalla roccia, ma respinto da un vento proveniente dall’esterno che lascia così uno stretto sentiero dove i tre poeti riescono a camminare ad uno ad uno. I penitenti alternavano il canto dell’inno Summae Deus clementiae con il grido di esempi di castità: “Virum non cognosco”, le parole di Maria all’Angelo e la vita di Diana cacciatrice che viveva nei boschi per amore di castità. E ricordavano infine mogli e mariti che vissero castamente il loro matrimonio.

Che il canto XXV anche quantitativamente sia didascalico è un fatto. La parte narrativa è all’inizio ridotta al minimo ed anche le terzine degli ultimi trentun versi non rivelano un particolare impegno poetico della fantasia di Dante. Stante tutto ciò, è chiaro che non possiamo dire che il canto che abbiamo esaminato sia bello ed entusiasmante. Certo anche in un canto didascalico ci sono delle “schegge” poetiche (si pensi all’immagine del cicognino che non si azzarda a volare o a quella dell’arcobaleno che è ben visibile pur essendo inconsistente) come suggerisce Umberto Bosco, non sufficienti però a farci apprezzare il canto come bello.

Dobbiamo allora fare un discorso di carattere più ampio. La Divina Commedia è ormai universalmente riconosciuta come opera didascalico-allegorica che affronta le più diverse tematiche. E questo è conseguenza dell’idea che nel Medo Evo si aveva dell’uomo di cultura che tanto più grande era quanto più il suo sapere era enciclopedico. Dante, consapevole di ciò, inserisce parti o addirittura canti che devono mostrare le sue ampie conoscenze e quindi rivelare la sua grandezza intellettuale e non solo poetica.

Orbene la Divina Commedia dobbiamo vederla come una Cattedrale, dove ci sono parti luminose e parti più scure, parti slanciate e parti più massicce, elementi figurativi più riusciti o meno riusciti. Ma non dobbiamo fissarci sui particolari. La Cattedrale va vista e apprezzata da lontano nel suo complesso. Così è anche per la Divina Commedia, un poema di 100 canti, di 4.711 terzine e di 14.233 versi. Come si può non pensare che vi siano versi belli e versi brutti, terzine belle e terzine brutte, canti belli e canti brutti? La Divina Commedia è una Cattedrale letteraria. Leggiamola senza lente di ingrandimento e la apprezzeremo e la ameremo nei suoi contenuti, nei suoi insegnamenti e nella sua maestosità.

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