La sconfitta del male travestito da bene

Dante riserva un ammaestramento morale sottile: il peccato di accidia consiste nel non adempiere al proprio dovere in tutti i campi, compreso quello politico e sociale

Dopo la spiegazione che Virgilio (P. Virgilio Marone, 70-19 a.C.) dà dell’ordinamento morale del Purgatorio, essendo ormai notte Dante (Alighieri, 1265-1321) si assopisce, ma vien presto scosso dal rumore di una turba d’anime costretta a correre all’impazzata. Chiaro è il contrappasso: come in vita quelle anime furono lente a volgersi al bene, così ora sono costrette a una corsa continua ed affannata.

Due di loro ricordano agli altri, gridando, esempi di virtù esaltata. Il primo, come di consueto in ogni cornice del Purgatorio, è riferito a Maria ed è tratto dal Vangelo secondo san Luca (cfr. Lc 1, 39). Maria, incinta di Gesù, si recò in fretta (ossia con sollecitudine lodevole) in visita alla cugina Elisabetta. Il secondo è tratto dallo scrittore latino Marco Anneo Lucano (39-65 d.C.), il quale, nella Pharsalia (III, 453), riferisce che Caio Giulio Cesare (100-45 a.C.), dopo aver lasciato a Marco Giunio Bruto (85-43 a.C.) l’incarico di espugnare la città ribelle di Marsiglia, in Gallia, si recò con rapidità fulminea in Spagna dove presso Ilerda (l’odierna Lèrida) sconfisse Lucio Afranio (†46) e Marco Petreio (110-46 a.C.), luogotenenti di Gneo Pompeo Magno (106-48 a.C.). A prima vista i due esempi potrebbero apparire quasi contrastanti, ma in realtà sono complementari. Infatti la visita a santa Elisabetta fu una tappa nella storia della Redenzione, così come la vittoria di Cesare fu strumento della volontà divina in una guerra che portò, provvidenzialmente, alla fondazione dell’impero di Roma.

I due poeti vengono poi a contatto con uno spirito che dichiara di essere stato abate in San Zeno, a Verona, quando era imperatore Federico I Hohenstaufen detto Barbarossa (1122 ca.-1190). Questa figura, che nulla dice della propria accidia (forse un “Gherardo II” peraltro quasi sconosciuto), è conchiusa in sé e solo funzionale all’invettiva di Dante contro un altro abate a sé coevo e figlio illegittimo di Alberto I della Scala (1245?-1301), da quest’ultimo posto, per puro nepotismo, a capo dell’abbazia di San Zeno dal 1292 al 1313. I commentatori trecenteschi lo descrissero non solo zoppo e di poco senno, ma anche violento e dissoluto.

A fine canto, ma non di cornice, ecco gli esempi di accidia punita, gridati da due anime. Il primo è tratto dalla Bibbia: durante la lunga marcia degli Ebrei dall’Egitto alla Terra promessa, alcuni avevano mormorato contro Mosè per i disagi sofferti e non avevano obbedito prontamente ai suoi ordini. Dio li punì facendoli morire nel deserto prima che potessero vedere il fiume Giordano in Palestina. Il secondo esempio è tratto dal libro V dell’Eneide. Alcuni compagni di Enea, stanchi delle fatiche del viaggio, decisero di fermarsi in Sicilia, destinandosi così a una vita oscura e ingloriosa al contrario invece di Enea e degli altri compagni, chiamati all’opera gloriosa della nascita di Roma.

Alcuni studiosi hanno posto il problema della poca congruenza degli esempi di bene, perseguito o mancato, da parte di Cesare, e poi degli Ebrei e dei Troiani, in quanto tale bene non sarebbe spirituale, ma attinente alla vita pratica e storica. Occorre invece concludere, sulla scorta del Convivio (II, IV 10 e IV, XVIII 10-11), che, se per Dante la vita contemplativa è «ottima», quella attiva o civile è «buona». Insomma se il bene si identifica con il volere di Dio, il peccato di accidia consiste nel non adempiere a questo dovere in tutti i campi, compreso quello politico e sociale. Dopo gli ultimi due esempi di accidia punita, alla fine del canto XVIII, Dante si addormenta e sogna (inizi del canto XIX), poco prima dell’alba, una figura bruttissima: si tratta di una femmina balbuziente, guercia, sciancata, dalle gambe storte, con le mani monche e di colorito scialbo. Poi, in brevissimo tempo tutti questi elementi si trasformano e, invece che repellenti, diventano attraenti. È chiaro che le singole deformazioni della femmina rappresentano la sintesi di quei vizi che si commettono perché si va oltre quelle che sono tendenze naturali dell’uomo: sono avarizia, gola e lussuria, vizi puniti nelle tre cornici in cui i due poeti debbono ancora andare. In realtà quella femmina è una strega che si trasforma in figura attraente e che, come una sirena, fa deviare dal retto cammino.

Ma il sogno continua. Appare a Dante una donna santa e presta che smaschera e svergogna la strega. Interviene allora Virgilio, che afferra la femmina disonesta e le denuda il ventre da cui esce una tal puzza che Dante non può fare a meno di svegliarsi. Numerosi sono stati i tentativi di identificazione della donna santa: Beatrice? Lucia? Maria? La Ragione? La Grazia? La più probabile è forse la virtù della Temperanza, che ben si adatta ai peccati successivi commessi per “troppo vigore”. Siamo alle soglie della quinta cornice, quella degli avari e dei prodighi.

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