Papa e papato “Über Alles”?

Dante e Bonifacio VIII, pontefice ambizioso, astuto e spregiudicato


Se vi fu papa nei confronti del quale l’astio di Dante risultò inestinguibile e inestinto, questi fu senza dubbio Bonifacio VIII e contro di lui, anche se indirettamente, troviamo un passo (Inf. III, v. 60) nel vestibolo dell’Inferno dove dietro un’insegna corrono gli ignavi, punti da vespe e mosconi, coloro cioè che in vita non seppero o non vollero prender partito con decisione. E tra loro, neppur degni di essere citati, ne riconosce uno, “colui che fece per viltade il gran rifiuto”. Si tratterebbe, per i commentatori più antichi e per la maggior parte dei moderni, di papa Celestino V. Chi era costui? Nato nel 1210, Pietro da Morrone condusse vita eremitica fino al 1294, quando, dopo un lungo periodo di vacatio del soglio pontificio, fu eletto papa da un conclave riunito a Perugia. Nonostante qualche sua iniziale indecisione, accettò prendendo il  nome di Celestino V e fissando la sua residenza a Napoli, anche perché la sua nomina era avvenuta per le pressioni esercitate sul conclave da Carlo II d’Angiò. A causa delle trame che si svolgevano attorno a lui e della sua ingenuità e inesperienza di affari di Chiesa, istigato alla rinuncia dal cardinale Benedetto Caetani, il 13 dicembre del 1294 rinunciò al Papato e, guarda caso, gli successe proprio il cardinal Caetani che prese il nome di Bonifacio VIII. Celestino riprese la vita eremitica, ma Bonifacio, temendo che diventasse punto di riferimento dei suoi oppositori, lo fece rinchiudere nel castello di Fumone, dove morì nel maggio del 1296. Posto che l’identificazione con Celestino sia esatta – molte ne sono state proposte, anche se poco convincenti – questa, anche se indiretta, sarebbe la prima accusa di Dante in tutta la Commedia a Bonifacio VIII, responsabile dell’esilio di Dante e colpevole di molte altre nefandezze.

   Negli Atti degli Apostoli (VIII 9-20) si legge che un tal Simone, giudeo di Samaria, esperto di arti magiche e  convertito al cristianesimo, vedendo che gli apostoli Pietro e Giovanni avevano il potere di comunicare ai fedeli lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, offrì loro del denaro per ricevere tale potere, , ma fu maledetto da Pietro. Da Simon mago furono detti ‘simoniaci’ coloro che vendevano o acquistavano a proprio vantaggio uffici sacri.

   Canto XIX. Cerchio VIII, quello di coloro che hanno peccato per frode contro chi non si fida  e che si presenta come una cavità divisa in dieci fosse circolari (bolge) per dieci diversi peccati.  Siamo nella terza bolgia, dove sono puniti i simoniaci. Essi sono confitti a testa in giù dentro buche scavate nella roccia e con le piante dei piedi lambite da fiamme. Il contrappasso? Sono capovolti come in vita capovolsero le leggi morali, la buca ricorda la borsa contenente  i denari che furon prezzo del loro peccato, le fiamme ai piedi sono il contrario di quelle che brillarono sulle teste degli apostoli in occasione della Pentecoste. Tra i simoniaci c’è un peccatore che muove gambe e piedi in modo piuttosto frenetico e quando Dante gli si avvicina, a lui si rivolge con queste parole: “Se’ tu già costì ritto, Bonifazio?” (Inf. XIX, v. 53). L’anima di chi parla è quella di papa Niccolò III. Il suo errore di identificazione si spiega col fatto che le anime non conoscono nulla delle cose presenti nel mondo, ma solo quelle più lontane e il tempo del viaggio di Dante è il 1300, quando Bonifacio era ancora in vita, avendo tra l’altro indetto proprio in quell’anno il primo Giubileo nella storia della Chiesa. A Niccolò III, della famiglia Orsini, simoniaco e nepotista quant’altri mai, Dante mette in bocca tutte le accuse, tra cui in primis la pratica della simonia, che a Bonifacio erano mosse dai suoi avversari: i Colonna, i francescani spirituali, il re di Francia, i seguaci di papa Celestino V, indotto a rinunciare al Papato grazie al suo consiglio interessato. Dopo le accuse a  Bonifacio, ecco anche quelle contro il suo successore, Clemente V, il cardinale Bertrand de Got, il papa avignonese eletto nel 1305 grazie alle pressioni di Filippo il Bello. Dante allora si rivolge a Niccolò con richiami evangelici contro le ricchezze, ribadendo che le parole sue sarebbero più gravi se non avesse riverenza per le somme chiavi che Niccolò tenne in vita come Papa. Le accuse si ampliano con un richiamo all’Apocalisse e con la condanna alla Chiesa corrotta, a partire dalla cosiddetta donazione di Costantino alla Chiesa si Roma. E alle parole di Dante, l’ombra di Niccolò si dimena forte con entrambi i piedi, cosa di cui si compiace anche Virgilio.

   Dalla terza passiamo all’ottava bolgia, quella dei consiglieri fraudolenti, trasformati in lingue di fuoco che corrono lungo tutta la fossa, lingue che stanno ad indicare l’accensione di un’idea fraudolenta suscitata nel prossimo con consigli ingannatori. E’ in questa bolgia che troviamo Guido da Montefeltro che dopo essere stato uomo d’armi, si fece frate francescano per espiare i suoi peccati. Egli più che la forza usò l’astuzia e da questa sua attitudine e capacità ebbe la maggior fama. Già francescano, fu chiamato da Bonifacio VIII per avere consiglio su come far guerra ai Colonna che non avevano voluto riconoscere la validità dell’abdicazione di Celestino V. A tale richiesta, Guido rimase indeciso, ma poi fu convinto dal papa il quale, facendosi forte del potere delle due chiavi, gli disse che lo poteva assolvere fin da quel momento, purchè lo consigliasse su come fare a vincere la resistenza di  Palestrina dove erano rifugiati i Colonna, ma ciò avvenne per la sua rovina oltre a quella della città che era stata ingannata e rasa al suolo. Una volta morto, poiché in realtà Bonifacio non poteva assolverlo preventivamente, un diavolo, “un nero cherubino” dice Dante, lo portò a Minosse che lo destinò all’ottava bolgia.

   Ed eccoci in Paradiso. Due sono i passi in cui si fa riferimento a Bonifacio VIII. Il primo è nel canto XVII dove il trisavolo Cacciaguida (Pd. XVII vv. 49-51) profetizza a Dante il suo esilio causato dalle macchinazioni della Curia romana, cioè da Bonifacio VIII e il secondo al termine del XXX canto dove Dante vede nella candida rosa dei beati uno scranno vuoto riservato ad Arrigo VII al tempo di Clemente V che affosserà nel buco roccioso dei simoniaci “quel d’Alagna”, il nativo di Anagni oggetto del famoso “schiaffo”, cioè appunto Bonifacio VIII. Tuttavia il più pesante attacco della Commedia a Bonifacioproviene addirittura da San Pietro, nel canto XXVII (Pd XXVII, vv. 22-27 e 40-66). Siamo nel Cielo delle Stelle fisse ove risiedono le schiere del trionfo di Cristo. L’anima di San Pietro da bianca diviene rossa come se il pianeta Giove scambiasse il suo bianco colore con quello rosso di Marte e così inizia l’invettiva contro colui “ch’usurpa in terra il luogo mio”. Si tratta proprio di Bonifacio VIII che “fatt’ha del cimitero mio cloaca /  del sangue e de la puzza”. Procede poi mutando pure la voce. Ricorda allora i primi papi martiri e dice che né le due chiavi avrebbero dovuto esser vessillo di guerra contro altri battezzati (riferimento alla guerra contro Palestrina?) né che lui stesso fosse immagine di privilegi venduti e mendaci, per cui ora lo stesso S.Pietro deve arrossire. I suoi attuali successori sono lupi rapaci invece che pastori. Ma la Provvidenza verrà in soccorso “e tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca / e non asconder quel ch’io non ascondo”.


QUAESTIONES

1) Vi furono motivi di astio personale di Dante nei confronti di Bonifacio VIII?

 Il più personale motivo di astio è costituito dalle trame ordite a suo danno da parte di Bonifacio VIII, ovviamente non in prima persona, ma tramite personaggi da lui politicamente guidati. A partire dal 1295 Dante, che faceva parte dei Guelfi bianchi, fu strenuo difensore dell’autonomia del Comune di Firenze, al contrario dei Neri, più propensi ad appoggiare le mire espansionistiche sulla Toscana di papa Bonifacio per scalzare i Bianchi dal potere. Dante aveva fato carriera politica fino al raggiungimento della carica più prestigiosa, il priorato, tra giugno e agosto del 1300. Riacutizzatisi i contrasti tra Bianchi e Neri, Dante in qualità di Priore, condannò all’esilio i più violenti capifazione, tra cui l’amico Guido Cavalcanti. Scaduta la carica di Priore, Dante nel 1301 fu uno dei tre ambasciatori mandati dai Bianchi a Roma per sondare le reali intenzioni del Papa. Ma il 1° novembre le truppe angioine di Carlo di Valois alleato del Papa mandato apparentemente a Firenze come “paciere”, entrarono con la forza in Firenze deponendo il governo in carica e aprendo la strada alla sanguinosa repressione attuata dai Neri ai danni dei propri nemici. Trattenuto presso la Corte pontificia più del dovuto con l’inganno, proprio mentre era sulla strada del ritorno, Dante fu raggiunto dalla condanna per baratteria (corruzione nell’esercizio delle funzioni pubbliche) a 5.000 fiorini e due anni di esilio. Dante rifiutò di presentarsi a pagare e la condanna fu aggravata dalla confisca di tutti i suoi beni e alla morte sul rogo. Si può dunque facilmente indovinare il nome del grande burattinaio di tutti questi eventi che portarono Dante al doloroso esilio.

2) Nel Paradiso Dante fa dire addirittura a San Pietro che la sede pontificia è vacante. Ma è proprio così e così crede Dante?

   Non vi sono prove  documentali che Bonifacio VIII sia stato un usurpatore e Dante lo considera Pontefice legittimo a tutti gli effetti. San Pietro considera Bonifacio un usurpatore sul piano morale e dice che la sede è vacante al cospetto di Cristo perché Bonifacio è indegno di ricoprire la carica che fu da lui nobilitata col martirio.  Cert’è che con le autorevolissime parole di San Pietro, assistiamo alla più aspra delle invettive antiecclesiastiche del poema. Comunque sia le spoglie di Bonifacio VIII, morto nel 1303, sono oggi sistemate nelle Grotte Vaticane in un bel sarcofago realizzato da Arnolfo di Cambio, a riconoscimento della sua legittimità di Pontefice.

3) Che cosa Dante non condivideva dell’idea del Papato di Bonifacio VIII?

   Nel canto XVI del Purgatorio Marco Lombardo (alias Dante Alighieri) richiama la “teoria dei due soli”  presente nel Monarchia dantesco. Papato e Impero sono istituzioni entrambe di diritto divino, anche se autonome e distinte e col dovere di collaborare. Papa Bonifacio VIII, riprendendo il dictatus Papae di Gregorio VII e il decretale Venerabilem di Innocenzo III, aveva fatto proprie le tesi teocratiche dei curialisti del XIII secolo secondo cui in vacanza dell’Impero, spettava alla Chiesa assumerne le funzioni e con la Bolla Unam Sanctam del 1302 aveva solennemente sancito la legittimità di congiungere pastorale e spada, affermando che il potere spirituale supera in autorità tutti i poteri temporali che possono solo da esso essere giudicati. Tutta la Cristianità è sotto il controllo del Papa, fonte e regola di ogni autorità sulla terra. Dante non poteva certo assentire.

4) La figura di Bonifacio VIII è da considerarsi tutta negativa o vi è anche qualche aspetto positivo?

   Certamente Bonifacio VIII fu implicato nelle mene politiche locali, italiane ed europee del suo tempo e fu pure autore di azioni nefande, come ad esempio la completa distruzione di Palestrina, fulcro del potere degli odiati Colonna. Molte delle accuse a lui rivolte risultano decisamente infondate, ma alcune quasi o senz’altro vere. A favore comunque possiamo citare la fondazione dell’Università “La Sapienza “ di Roma e l’indizione del primo Giubileo nella Chiesa. Fu così importante che persino Giotto  immortalò il Pontefice in un celebre affresco nell’atto di leggere dalla Loggia di San Giovanni in Laterano La Bolla di indizione del Giubileo. Ed è proprio nel 1300, tra l’altro,  che si svolge il soprannaturale viaggio  di Dante nell’Aldilà.

5) Può essere che l’anima di Guido da Montefeltro sia stata addirittura sottratta a San Francesco  da un nero diavolo?

   Francesco entra in scena alla morte di Guido perché era suo “cordigliero” e vorrebbe comunque salvarlo, ma le argomentazioni del “nero cherubino” sono stringenti: 1.Guido è stato consigliere fraudolento e di ciò non si è pentito. 2. Non si può assolvere chi non si pente e men che meno prima che si compia l’atto peccaminoso. 3. Voler peccare e pentirsi nello stesso tempo non si può per il principio di non contraddizione. Insomma, non c’era proprio scampo.

Visits: 62