Tra i golosi del purgatorio: Dante, Forese e…Nella

Il desiderio inappagato, pena del contrappasso per i golosi, e la potenza della preghiera d’intercessione applicata ai defunti

Dante e Virgilio hanno incontrato , nella quinta cornice, il poeta latino Papinio Stazio, convertitosi in vita al cristianesimo e purificatosi in Purgatorio dal peccato di prodigalità (cfr. il mio Due canti per Papinio Stazio in questa stessa Via Pulchritudinis).  I tre poeti si avviano  – siamo alla fine del canto XXII – alla sesta cornice, quella dove si purificano i golosi.

   Ivi giunti, appare loro, improvvisamente, uno strano albero, dai cui rami pendono frutti dal soave profumo, ma con una forma simile ad un abete rovesciato per impedire, così spiega Dante, di salire in alto di ramo in ramo. Dalla parte rocciosa scendeva poi dell’acqua limpida che saliva tuttavia in alto, su per le foglie. E’ chiaro il contrappasso per contrasto. Come in vita i golosi si nutrivano e bevevano a crepapelle, così ora sono impossibilitati a mangiare e bere. Non basta tuttavia. Infatti “per entro le fronde” i tre poeti sentono una voce che grida: “Di questo cibo voi avrete mancanza”, a cui seguono esempi di temperanza.

  Il primo è, come al solito, quello di Maria, preoccupata, alle nozze di Cana, per il buon esito della festa nuziale e non già per il suo desiderio di bere. (Gv II, 1 – 11).  Poi son ricordate le Romane antiche che si accontentavano di sola acqua e ancora l’esempio di Daniele che insieme ad altri giovani ebrei rifiutò i cibi e le bevande della mensa reale di Nabucodonosor che cercava di far penetrare in loro la cultura babilonese. Si nutrirono invece di sola acqua e legumi, ottenendo così da Dio scienza e sapienza. Daniele poi ebbe in dono la capacità di interpretare ogni visione e sogno (Dn I, 1 – 20). Altro esempio è quello dell’età dell’oro, quando la fame rese saporite le ghiande e la sete trasformò in nettare l’acqua di ogni ruscello. Infine il grande esempio di San Giovanni Battista che si nutrì di locuste e di miele selvatico (Mt III, 4).

   I tre poeti riprendono il cammino – siamo  nel canto XXIII –  e vengono raggiunti da una schiera di anime terribilmente magre che cantano un versetto del Salmo che dice: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode” (Sal LI, 17). La loro pelle prendeva forma dalle ossa e gli occhi, come in un teschio, sembravano anelli senza gemme. Insomma, una visione veramente spettrale. Dalla schiera di questi golosi un’anima si volge a Dante con gioia e meraviglia e Dante, dalla sola voce e non certo dall’aspetto, riconosce in essa il fiorentino suo amico Forese Donati il quale gli chiede subito chi siano le due anime che l’accompagnano. Prima di rispondere Dante chiede da che cosa i loro corpi sono così consumati e la risposta è quasi ovvia. Davanti all’albero il profumo dei frutti e la vista dell’acqua produce in loro un tale desiderio che, restando inappagato, li consuma nel modo che Dante stesso può constatare. Ma Dante vorrebbe anche sapere come mai Forese si trovi già nella sesta cornice e non stia ancora giù, nell’Antipurgatorio, essendo egli morto da pochi anni.

    Allora Forese spiega che ciò è accaduto grazie alle devote preghiere della sua vedova Nella, le cui virtù sono tanto più gradite a Dio se paragonate alla scostumatezza delle donne fiorentine. E qui Forese profetizza per le ‘svergognate’ una vendetta divina con toni veramente biblici. Dante infine ricorda la sregolata vita giovanile di entrambi di cui ora, al solo i ricordo, ci sarebbe da vergognarsi e dice che alcuni giorni prima era stato condotto sulla retta via, che era smarrita, con il corpo reale e non fittizio da Virgilio, mentre l’altro  non è che l’ombra che si è appena purificata dal peccato di prodigalità nella quinta cornice. All’inizio del canto XXIV, Forese risponde a Dante sulla sorte della sorella Piccarda, donna dalla santa vita, che  si trova ora in Paradiso. Molte anime sono indicate da Forese, tra cui Bonagiunta da Lucca, con cui Dante avrà in questo stesso canto un colloquio assai importante per la definizione del dolce stil novo. Ma di ciò si potrà parlare in altra occasione.

Quaestiones

1) Quando Dante vede la schiera di gente magra richiama alla mente Erisittone e una Maria “che nel figlio diè di becco” (Pg XXIII, v. 30). Perché cita costoro?

Erisittone, figlio di Triopa re di Tessaglia, aveva osato tagliare una quercia in un bosco sacro a Cerere. Pertanto la dea lo condannò ad una fame inestinguibile, così che, dopo aver consumato ogni suo bene per mangiare, si cibò addirittura delle proprie carni. Dante ricavava ciò dal libro VIII delle Metamorfosi di Ovidio.  Quanto al v. 30 il richiamo è riferito a un episodio narrato da Giuseppe Flavio nel VI libro de La guerra giudaica. Durante l’assedio di Gerusalemme fu tanta la fame degli Ebrei assediati che una donna, Maria di Eleazaro, giunse a divorare il proprio figlio. Dante cita questi due esempi estremi per dare ancor più l’idea di qual fame patiscono le anime  dei golosi in Purgatorio.

2) Sempre a proposito delle anime consunte dice Dante che “chi nel viso de li uomini legge ‘omo’ / ben avrìa quivi conosciuta l’emme” (Pg XXIII, vv. 32 – 33). Che cosa vuol dire?

Secondo una credenza medievale abbastanza diffusa l’uomo portava impressa sul volto la parola OMO. Nelle occhiaie si sarebbero trovate le due O, mentre attraverso gli zigomi e gli archi sopraccigliari per le linee laterali e il naso per la linea mediana, si sarebbe trovata la M. Occorre però precisare che la cosa risultava più chiara pensando ad una M gotica maiuscola. Nei golosi del Purgatorio la M prendeva maggior rilievo a causa della loro magrezza.

3) Che rapporto ebbe Dante con  Forese Donati?

Forese, figlio di Simone Donati, fratello del violento e famigerato fratello Corso, capo della parte Nera e di Piccarda, famosa invece per la sua santa vita, visse nella seconda metà  del XIII secolo e morì nel 1296. Era anche lontano parente della moglie di Dante Gemma Donati. Fu amico del Poeta, come dimostrano l’incontro e il colloquio del canto XXIII e una famosa tenzone di sei sonetti scambiati in età giovanile, tre di Dante e tre di Forese. Nei versi giovanili di Dante Forese appare come un marito che trascura la moglie lasciandola sola nel letto coniugale, mentre lui andava di notte a rubare per soddisfare le sue viziose gozzoviglie. Invece tra le accuse rivolte da Forese a Dante predomina, cosa che non ci aspetteremmo, quella di vigliaccheria. Dobbiamo però tener presente che la Tenzone, genere letterario arrivato dalla poesia provenzale, presentava accuse che neppure i “tenzonatori” prendevano alla lettera. Si trattava di un puro gioco, di un divertimento letterario. Certo, le accuse erano volgari ed espresse con linguaggio osceno e scurrile. Fatto sta che l’incontro e il colloquio con Forese costituiscono per Dante l’occasione di una vera e propria palinodia, ossia una ritrattazione e un ripudio di tutto ciò che era stato detto nella tenzone. Forese ha qui toni affettuosi sia verso l’amico che verso la moglie, donna pia e devota nonché prodiga di preghiere grazie alle quali è stata affrettata la purificazione del marito. Dice Forese di lei: “la vedovella mia, che molto amai”, esempio virtuoso di una Firenze “sobria e pudica” che però non c’è più.

4)  A che cosa fa riferimento la profezia sulla terribile sorte delle sfacciate donne fiorentine?

La moglie Nella è ricordata da Dante – ovviamente per bocca di Forese – per due motivi: il primo è didascalico. Dante ci fa capire quanto siano importanti le preghiere dei vivi per affrettare la purificazione delle anime del Purgatorio, così come è accaduto all’amico Forese. In secondo luogo la sua pudicizia e amore coniugale sono di contrasto alle impudiche e sfacciate donne di una Firenze che dovrà subire una terribile vendetta divina, così che avranno le bocche aperte solo per urlare. È questa la profezia – l’antiveder – di Forese che, essendo però vaga, ha fatto pensare ai più svariati avvenimenti. Umberto Bosco ritiene che tra le varie proposte la più plausibile sia quella della discesa di Arrigo VII, anche per le somiglianze, specie nel tono, con l’Epistola VI agli “scelleratissimi” fiorentini, in cui Dante, con toni da profeta biblico, presenta “le più spaventose calamità, le case distrutte, la plebe infuriata, i templi spogliati”. Può anche essere tuttavia, senza cercare di individuare persone ed eventi, che la profezia messa in bocca a Forese altro non rappresenti che l’atteggiamento fiducioso di Dante nella Giustizia divina e nel suo inevitabile intervento.

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