Dante autore, narratore e personaggio nella Divina Commedia

I tre ruoli di Dante nel suo capolavoro

Cominciamo a leggere la Divina Commedia e subito, fin dagli inizi, individuiamo  tre ruoli diversi di Dante. C’è anzitutto, dice Michelangelo Picone (1943-2009), «il protagonista del viaggio oltremondano che osserva la realtà esterna e i personaggi che vi operano; troviamo poi l’io che racconta, il narratore che riferisce in modo chiaro e coerente gli eventi accaduti al personaggio, le persone viste e le parole dette e udite; abbiamo infine l’io che mette in opera il racconto del narratore, l’autore cioè che appone a questo racconto, già provvisto di un suo senso narrativo, il sigillo dell’allegoria, della verità poetica finale».

In sostanza e sintesi l’autore è colui che, scrivendo l’opera,  immagina la sua struttura, sceglie i personaggi e decide la loro distribuzione nei tre regni dell’aldilà; il narratore è colui che racconta all’autore ciò che gli è capitato; il personaggio è il protagonista degli eventi stessi. Occorre tuttavia dire che i ruoli non sono sempre così distinguibili ed anzi spesso si confondono, trattandosi pur sempre della stessa persona che li interpreta, cioè Dante. E in effetti la Divina Commedia è un’opera autodiegetica, ossia narrata in prima persona da quell’unico soggetto che è anche personaggio-autore.

È stato il dantista statunitense Charles Singleton (1909-1985) a definire Dante everyman per dire che Dante nella Commedia rappresenta sia se stesso che l’intera umanità e l’argentino Alberto Manguel <1948> scrive che everyman è Dante «quando si comporta come ‘levatrice’ dei nostri pensieri, come Socrate definì una volta il ricercatore di conoscenza. La Commedia ci consente di porre in essere le nostre domande». È infatti grazie al triplice ruolo e quindi alla triplice prospettiva che siamo indotti a riflettere sui vari aspetti della nostra esistenza.

Dante narratore-autore interrompe talora il racconto con degli appelli al lettore, a cui si rivolge direttamente per condividere le sue esperienze e sentimenti o per osservare qualche peculiarità di contenuto o di stile. È stato il filologo e critico Erich Auerbach (1892-1957) a scrivere: «È facile vedere che l’originalità degli appelli danteschi è sintomo di un nuovo rapporto tra i lettori e l’autore, che a sua volta ha radici nel concepimento di Dante del suo ruolo e funzione come poeta. Con la massima chiarezza e coerenza, mantiene l’atteggiamento di un uomo che, per grazia speciale, è stato ammesso nell’aldilà, come Enea e Paolo prima di lui e a cui è stata affidata una missione di eguale importanza: rivelare all’umanità l’ordine eterno istituito da Dio e quindi insegnare ai suoi simili che cosa c’è di sbagliato nel modellare la loro vita».

Quanti sono gli appelli? In Enciclopedia Dantesca Vittorio Russo (1934-1997) riporta che, nel totale delle tre cantiche, sono 19, tesi a richiamare l’attenzione del lettore sul significato della narrazione, sull’eccezionalità delle cose viste, per renderlo partecipe delle sue emozioni di meraviglia, di pietà, di sgomento e del suo impegno poetico di fronte all’ardua impresa prefissasi. Si tratta di un espediente stilistico che è un aspetto particolare della figura retorica dell’apostrofe di origine classica.

    Non posso ovviamente riferirli tutti. Prendo allora una terzina famosa e misteriosa: «O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,/ mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ‘l velame de li versi strani» (If IX 61-63). Virgilio e Dante si trovano davanti alle mura della città di Dite dove sono apparse le Furie e Medusa. Dante è molto spaventato, ma poi avviene una cosa straordinaria: dalla palude stigia sta giungendo un Messo celeste che postosi davanti alla porta della città,  con una verga la spalanca rimproverando aspramente i diavoli e ricordando loro che non possono opporsi al volere divino. C’è chi ha riferito la terzina a ciò che precede (Furie e Medusa) o a ciò che segue (Messo celeste). Umberto Bosco cita tre versi analoghi che si trovano in Pg VIII 19-21 dove, con altro e simile appello, il lettore è invitato ad aguzzare gli occhi al vero, cosa peraltro non difficile per il velo ormai molto sottile. Qui si tratta di due angeli che nella Valletta fiorita dell’Antipurgatorio cacceranno il serpente  che sta per arrivare. Per questa analogia il Bosco ritiene che sotto il velame di Inferno IX si celi ciò che viene dopo, cioè l’arrivo del Messo celeste.

Quasi tutti i commentatori intendono dottrina come insegnamento morale. Ma dottrina potrebbe anche significare insegnamento diversamente applicabile.  Ora nel canto precedente vi è l’episodio dell’incontro con Filippo Argenti ove si manifesta nelle parole di Dante un odio che non ha eguale nella Commedia. Il dannato è un fiorentino (guelfo nero) della Casa degli Adimari — ostili a Dante e agli Alighieri — che infatti si opposero sempre al ritorno di Dante. Pertanto la Città di  Dite, sotto il velame, sarebbe la città di Firenze piena di cittadini velenosi come serpenti governati da Furie obbedienti a Medusa. Il Messo celeste rappresenterebbe allora un’autorità (un Imperatore?) che potrebbe portare giustizia nella città, cosa che avrebbe poi  fatto nella realtà Arrigo VII che attaccò Firenze  senza tuttavia conseguire l’esito sperato da Dante (cfr in questa stessa rubrica il mio Arrigo VII di Lussemburgo).

All’inizio del Paradiso poi (Pd II 1-18) Dante invita i lettori tramite un’immagine marinara a riveder i propri lidi se non riescono più a seguire il vascello dantesco della poesia per la novità della materia mai affrontata prima e anche per lo stile alto e certamente più ostico. Insomma: se non siete preparati a correre le acque del Paradiso potete anche fermarvi qui. D’altronde per ottenere la salvezza, con un pentimento (vero) anche dell’ultimo minuto, basta metter piede sulla battigia del Purgatorio. Ce lo dice anche Santa Madre Chiesa.

Autore, narratore e personaggio — ci ricorda la brasiliana Annalice Del Vecchio de Lima nel suo saggio Il Dante–personaggio nella Divina Commedia (in Revista Versalete, lug-dic 2019) — non appartengono alla cultura e alla coscienza di Dante il quale tendeva a riunirli in un unico “io” autobiografico chiamato da Marco Santagata <1947> “arcipersonaggio”, che sarebbe questo “io” che Dante costruisce passando da un’opera all’altra — di quelle ovviamente già da lui scritte — fornendo così tratti letterari e autobiografici inseriti in tutt’e tre le cantiche. E ancora Martina Piccin <1984>: «Dante riesce ad azzerare nel proprio personaggio la distinzione tra realtà e finzione. Esso è un “arcipersonaggio” perché sta a capo e riunisce in un’unica figura il Dante reale e il Dante personaggio letterario».

Direi per concludere che Dante – “arcipersonaggio “ o meno – è sempre Dante, che si presenta qua e là in tutta la Commedia come autore, narratore e personaggio e assai spesso i suoi ruoli, come già detto, si intrecciano, si confondono e si sovrappongono.

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