Il carro trionfale orrendamente si trasforma

È il Carro della Chiesa in uno dei canti più allegorici del Poema dantesco

Già alla fine del canto XXXI del Purgatorio, Dante era rimasto assorto nella contemplazione di Beatrice (cfr. il mio Beatrice si “svela” e Dante la mira nel suo celestiale splendore). Ora ci troviamo nel XXXII e le tre donne alla destra del Carro (le virtù teologali) lo richiamano alla realtà dal suo stato di obnubilamento. Egli distoglie dal volto di Beatrice gli occhi che però non riescono subito a discernere la realtà, ma, una volta riacquistata la capacità visiva, Dante si accorge che la processione sta tornando indietro e quindi anche lui, Matelda e Stazio la seguono accanto alla ruota destra del Carro.

   Percorso uno spazio lungo tre tiri di freccia, Beatrice scende dal Carro e Dante sente mormorare “Adamo” da tutti i personaggi della processione. Essi si dispongono attorno ad un albero spoglio la cui cima si dilata quanto più sale verso l’alto. Ora, nel senso letterale, questa pianta non può essere che l’albero “del bene e del male” il cui frutto era stato vietato all’uomo (Gen, II 9, 16-17 e III 1-6). La pianta, come dirà Dante nel canto successivo ed anche qui al verso 48, in senso morale potrebbe rappresentare la “giustizia divina”. Questi due sono i soli dati sicuri. Tanti e vari furono comunque i significati attribuiti alla pianta: la Croce, Roma, la Chiesa, l’Impero, lo ius naturale o la volontà divina  e così via. Il Grifone poi trae il Carro ai piedi della pianta e vi lega il timone con una frasca, sia pur ‘dispogliata’, dell’albero stesso. Eseguita questa operazione, ecco il miracolo: l’albero immediatamente rifiorisce e i suoi rami riprendono colore. Si innalzò allora dai partecipanti alla processione un canto non compreso da Dante, ma che, come morfica nenia, fece addormentare il poeta.

   Una volta risvegliatosi, Dante vede accanto a sé solo Matelda e paragona il suo risveglio al ridestarsi di Pietro, Giovanni e Jacopo dopo la trasfigurazione di Gesù e la scomparsa di Mosè e Elìa. Non vede subito Beatrice, ma Matelda gliela indica: è seduta ai piedi dell’albero , attorniata dalle sette donne (quattro virtù cardinali e tre teologali), mentre il Grifone e tutti gli altri componenti della mistica processione stanno salendo al cielo con un canto più dolce e più profondo di tutti quelli fino ad allora uditi dal Poeta. A questo punto Beatrice si rivolge a Dante e gli predice che, una volta lasciato il mondo dei vivi, dimorerà per poco tempo nella Selva del Paradiso terrestre e che poi sarà per sempre cittadino “di quella Roma onde Cristo è romano”, ossia della Roma celeste. E tuttavia, a vantaggio del mondo che non segue la retta via, ecco l’investitura a compiere la missione: “Però, in pro del mondo che mal vive,/ al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,/ ritornato di là, fa’ che tu scrive” (Purg. XXXII, vv. 103-105). 

   E Dante subito vede un’aquila che cala sull’albero con la velocità di un fulmine, rompendo la corteccia, i fiori e le foglie e colpendo con tutta la sua forza il Carro che ondeggia da una parte e dall’altra come una nave durante una burrasca. L’aquila è indubbiamente simbolo dell’Impero romano, qui visto non tanto in ottica provvidenzialistica (o forse sì), ma secondo una visione negativa, in quanto la devastazione dell’albero e del Carro si riferisce alle persecuzioni cui gli imperatori romani, da Nerone a Diocleziano, sottoposero i cristiani, colpendoli con tale accanimento che la stessa barca della Chiesa, in balìa delle onde, sembrò essere sull’orlo del totale naufragio. Dante vede poi avventarsi sul fondo del Carro una volpe che sembrava digiuna “d’ogni buon pasto”, ma Beatrice, rinfacciandole le proprie colpe, la mette in fuga. E’ quasi unanime qui l’interpretazione della volpe come simbolo dell’eresia, messa a tacere dalla teologia rappresentata da Beatrice.

    Dante vede poi scendere l’aquila una seconda volta, senza però che rechi danni all’albero e lasciando dentro il Carro parte delle proprie penne. Il riferimento è qui alla cosiddetta donazione di Costantino, ossia a un editto dell’Imperatore Costantino che concedeva alla Chiesa autorità e privilegi temporali, nonché proprietà immobiliari estese anche ad Oriente. Dopo le penne lascate sul Carro, Dante sente una voce dal Cielo che dice: ”O navicella mia, com’ mal se’ carca!” , ossia ‘di che merce cattiva ti sei caricata!’ 

   Dopo di che, Dante vede aprirsi la terra sotto il Carro e uscirne un drago che conficca la coda su per il Carro stesso, staccando una parte del fondo, portandolo con sé e andandosene tutto soddisfatto. La parte del carro rimasta si ricoprì allora delle penne dell’aquila, da essa offerte forse “con intenzion sana e benigna”. Varie le interpretazioni allegoriche del drago. C’è chi vi ha visto Maometto, chi l’Anticristo. Altri, con riferimento all’Apocalisse (XII, 3-9), intendono Satana che sottrae una parte di cristiani alla Chiesa di Roma con una violenta scissione dal corpo unitario della Fede.

   Così trasformato, il Carro mise fuori delle teste, tre sopra il timone e una in ciascuno degli angoli. Le prime tre con due corna e le altre quattro con un corno solo nel centro della fronte. Mai, dice Dante, fu vista da alcuno una simile cosa. Il carro si trasforma e sempre più assume l’aspetto del mostro dell’Apocalisse (XVII,3). Ecco la notazione di Tommaso Di Salvo: “… le sette teste sono i sette peccati capitali e di questi i primi tre (superbia, ira, avarizia) hanno due corna perché malignamente volti contro Dio e contro il prossimo; gli altri quattro ne hanno uno solo, perché offendono solo il prossimo. Comunque tutti, teste e corna, sono simbolo della corruzione della Chiesa conseguente all’arricchimento, all’ingordigia di cui il primo atto era stato la donazione di Costantino”.

   Sopra il Carro, così mostruosamente deformato, appare, sfrontata, con gli occhi pronti ad ammiccare, una puttana e di fianco a lei un gigante con cui si baciava assai spesso. Ma poiché la meretrice a un certo punto volge l’occhio cupido a Dante, il gigante la flagella da capo a piedi e poi, irato e sospettoso, scioglie il Carro dall’albero e lo trascina nella selva. Quasi tutti concordi furono gli antichi commentatori nel ritenere qui rappresentata la soggezione della Chiesa alla Casa di Francia, identificando, così come la maggior parte dei moderni, il gigante con Filippo il Bello.

   Si conclude così il XXXII Canto. Ma a Dante rimane ancora da bere l’acqua dell’Eunoè per essere in tal modo pronto a salir verso le stelle.

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