La profezia del “cinquecento diece e cinque”

E con l’acqua  bevuta all’Eunoè Dante completa la sua purificazione

   Col Carro trionfale orrendamente deformato, con sopra un gigante e una puttana e trascinato infine nella selva, si era concluso il canto XXXII del Purgatorio. La scena stava a rappresentare la soggezione della Chiesa alla Casa di Francia e il gigante, secondo i commentatori antichi e moderni, sarebbe da identificare con Filippo il Bello.

   Siamo ora agli inizi dell’ultimo canto, il XXXIII. Le sette donne, ovvero le virtù (4 cardinali + 3 teologali) che hanno assistito alle brutte vicende del Carro, intonano, lacrimando, un salmo, il LXXVIII (“Deus venerunt gentes”) che lamenta la distruzione del Tempio. Eccone, in traduzione, il primo versetto: “O Dio, i gentili sono penetrati nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio”.

   Beatrice si muove preceduta dalle sette donne e seguita da Matelda, Dante e Stazio. Invita poi Dante ad avvicinarsi a lei affinchè possa udire chiaramente le cose che dirà. E subito afferma che i colpevoli della corruzione della Chiesa saranno puniti, poiché “la vendetta di Dio non teme suppe”.

Diverse sono state le interpretazioni di questa espressione. Gli antichi commentatori riportano un’usanza fiorentina per cui un omicida che avesse mangiato una zuppa sul corpo o sulla tomba dell’ucciso per nove giorni consecutivi, si poneva al riparo dalla vendetta dei parenti e dalla punizione del Comune. Si trattava quasi certamente di una superstizione popolare e l’espressione era passata quasi in proverbio. Il Mazzoni, poi, riferisce una costumanza dei re francesi che richiedevano, in modo forse un po’ irriverente, ai vassalli la conferma del giuramento con un pezzo di pane intriso nel vino. Se accettata, tale interpretazione avrebbe un certo fascino, anche perché, come dice Giovanni Reggio, “si potrebbe cogliere nell’espressione un’indubbia frecciata antifrancese”. Comunque e per concludere ‘suppe’ starebbe a significare tutti gli accorgimenti volti a vanificare la vendetta di Dio.

   Beatrice prosegue e dice di vedere con certezza che si avvicina il tempo in cui un “cinquecento diece e cinque, messo di Dio” ucciderà la puttana che ‘delinque’ con il gigante. Beatrice è consapevole che le sue parole sono oscure, ma presto i fatti scioglieranno questo ‘enigma forte’. E che si tratti di un enigma non facile da sciogliere lo sanno tutti i dantisti, visto che sul DXV c’è una vastissima letteratura e l’elenco delle varie interpretazioni, pur limitandoci ad una bibliografia essenziale, sarebbe assai lungo. Molti hanno pensato alla sigla DVX (duce, capo o guida) con lo spostamento della V al posto della X. Ma che cosa avrebbe impedito a Dante di elencare in ordine le lettere?  “Nel quale un cinquecento e cinque e diece” è infatti un endecasillabo perfetto e una rima Dante l’avrebbe sicuramente trovata. C’è chi ha pensato ad una specie di acrostico come ‘Domini Xristi Vertagus’, dove vertagus sarebbe un cane di origine asiatica oggi scomparso. E c’è pure chi ha pensato che la D potrebbe essere riferita a Dante stesso. Altri ancora hanno proposto il seguente conteggio: 515+800 (anno della restauratio imperii) ottenendo così il 1315, anno considerato dalle profezie gioachimite (cioè di Gioacchino da Fiore) come quello della redenzione della Chiesa.

   Tuttavia alcune espressioni e termini usati da Beatrice, come “veggio certamente e perciò il narro” (v. 40), “stelle propinque” (v. 41), “tosto fier li fatti le Naiade / che solveranno questo enigma forte” (vv. 49-50) e, come dice il Reggio, ”soprattutto l’atmosfera che circola in questo canto, fanno ragionevolmente ritenere che qui Dante abbia pensato ad Arrigo VII di Lussemburgo”. E sempre Reggio invita a rileggere un passo dell’Epistola VII diretta ad Arrigo e in particolare il paragrafo 29, proposto qui in traduzione italiana: “Rompi dunque gli indugi, o novella prole di Iesse e dagli occhi del Signore Dio Sabaoth, dinanzi al quale tu operi, attingi la fiducia nel tuo valore; e atterra questo Golia con la fionda della tua sapienza e con la pietra della tua forza”.

   Altra profezia di un salvatore politico e morale c’era stata in Inferno (I, v. 101): la profezia del Veltro (letteralmente un cane da caccia). Questa è posta all’inizio della prima cantica e quella del DXV alla fine della seconda. Conoscendo la precisione di Dante, la simmetria non può essere sicuramente ritenuta casuale e, nel parallelismo, avrebbe senso ritenere la V come ‘Vertagus’.

   Torniamo al canto. Beatrice invita Dante a imprimere nella sua memoria le cose udite e a riferirle ai vivi per il loro bene. Continuando il colloquio con Dante essa ricorda al poeta l’insufficienza di quella scuola di pensiero da lui seguita e come sia distante da quella verità di cui lei è banditrice. L’allusione è certamente agli studi filosofici seguiti da Dante con grande passione e ricordati esplicitamente nel Convivio, completamente indipendenti dagli studi teologici. Dante stupisce e dice di non ricordare, ma lei gli ricorda che proprio in quello stesso giorno aveva bevuto l’acqua del Letè che elimina il ricordo dei peccati e che le sue parole sarebbero state da quel momento in poi più chiare per la sua vista ‘rude’. A mezzogiorno Beatrice, Dante, Matelda e Stazio con le sette donne-virtù giungono ad una fonte da cui scaturiscono due fiumi, il Letè, nelle cui acque Dante era già stato immerso e l’Eunoè dove viene ora condotto da Matelda su ordine di Beatrice. Se il Letè aveva cancellato il ricordo dei peccati, l’acqua dell’Eunoè fa ricordare invece il bene compiuto. Tanto era dolce quel bere che Dante non si sarebbe mai sentito sazio e sentendosi comunque rinnovato come le tenere piante inverdite in primavera, comprende che la sua purificazione è completata ed è così disposto a salire oltre, verso il più alto Regno.

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