La divina foresta e la bella Matelda

I primi passi di Dante nel Paradiso terrestre

   Già agli inizi del poema era comparso  alla vista di Dante un monte, un “dilettoso monte” che egli avrebbe voluto salire con le proprie forze, essendo invece bisognoso di una guida. Comincia così il viaggio di Dante nell’aldilà che è simbolicamente compreso tra due selve dalle antitetiche caratteristiche. La prima, la selva del peccato, oscura e popolata da bestie feroci (le tre fiere) e la seconda chiara, calma e serena. Dante pellegrino – siamo nel canto XXVIII –  ha conquistato alla fine del viaggio purgatoriale, quella libertà spirituale che gli consente di non aspettare più i cenni del maestro (che ancora lo segue, con Stazio, ma senza più intervenire). Dopo l’investitura di Virgilio (“Te sovra te corono e mitrio”), dunque, Dante si inoltra nella divina foresta dell’Eden, dove sente il profumo dei fiori, è accarezzato dall’aria di un dolce venticello ed è allietato dal cinguettio degli uccelli che stanno tra le verdi foglie degli alberi.

   Varie sono le fonti da cui Dante ha tratto ispirazione per il suo Paradiso terrestre, ma nessuna si può dire dominante. L’Eden dantesco è ad esempio affine a quello biblico: anch’esso è un giardino ricco di vegetazione (foresta spessa e viva), popolato da uccelli (augelletti per le cime), percorso da due fiumi (anche se nella Bibbia sono quattro), luogo ameno che invita alla serenità e alla pace. E poi le fonti classiche: i Campi Elisi nel VI dell’Eneide e diversi passi delle Metamorfosi ovidiane. Non erano inoltre sicuramente ignoti a Dante molti componimenti poetici della letteratura francese e provenzale, soprattutto quelli che descrivevano il cosiddetto locus amoenus.

   Dante si inoltra vieppiù nella foresta  e si trova il cammino sbarrato da un “rio” le cui acque sono limpidissime. Fermatosi sulla riva del fiumicello, volge lo sguardo al di là delle acque e scorge una bella donna che se ne andava cantando e “scegliendo fior da fiore”. Dante le rivolge la parola pregandola di avvicinarsi per comprendere così il suo canto. Tale donna fa venire in mente a Dante il mito di Proserpina quando, nell’amena pianura di Enna, mentre coglieva fiori, fu sorpresa e rapita da Plutone, re dell’Averno. Dopo un riferimento di Dante all’Ellesponto che si frapponeva all’amore di Ero e Leandro, la bella donna spiega che la sua letizia può essere compresa se si pensa al salmo Delectasti che è un inno di lode alle bellezze del creato. Si tratta del Salmo XCI, 5-6 che così recita: “Quia delectasti me, Domine, in factura tua et in operibus manuum tuarum exultabo./ Quam magnificata sunt opera tua, Domine!”. Traduzione: “Poiché mi hai rallegrato, o Signore, con le tue meraviglie, esulterò per le creazioni delle tue mani./ Come sono grandi le tue opere , o Signore!”.

   La bella donna invita poi Dante a chiedere qualche altra spiegazione. Dante si dice stupito per la presenza del vento e dell’acqua, dal momento che Stazio (Pg.XXI,40-57) aveva detto che nel Purgatorio non esistono perturbazioni atmosferiche, mentre lo stormire delle fronde presuppone la presenza del vento e il fiumicello rimanda ad una fonte alimentata da pioggia o da neve. La bella donna spiega che il vento è prodotto dal moto circolare dei cieli e non dalle variazioni atmosferiche come sulla terra e che l’acqua arriva da una fonte perenne scaturente per volere divino. Il fiumicello presso cui si trova Dante è il Leté, le cui acque eliminano la memoria dei peccati. E poi, dalla stessa fonte, scaturisce un altro corso d’acqua, l’ Eunoè, che produce il ricordo delle buone azioni compiute. Infine la bella donna aggiunge un corollario alle sue spiegazioni. Dice che gli antichi poeti che cantarono la mitica “età dell’oro” videro forse come in sogno questo luogo, dove fu innocente “l’umana radice” e fu eterna primavera. Dante si volge verso i due poeti che sorridono, quasi compiaciuti che nell’ultima parte del suo discorso la bella donna abbia ricordato la loro attività poetica come prefigurazione del luogo edenico in cui si trovano. Così si chiude il canto.

   Abbiamo finora parlato della bella donna apparsa a Dante, non indicata però col suo nome proprio. Il suo nome c’è tuttavia e viene però detto da Beatrice solo nell’ultimo canto, il XXXIII: essa si chiama Matelda. Sulla ricerca della sua identità e sulla sua funzione sono stati versati, come si suol dire, fiumi di inchiostro. Cerchiamo dunque di focalizzare le principali problematiche. La prima riguarda l’identità storica di Matelda, la seconda è relativa al suo significato simbolico.

   Per la prima quasi tutti i commentatori trecenteschi non ebbero dubbi: si tratterebbe di Matilde di Canossa. Però costei era stata sostenitrice di Papa Gregorio VII nella sua lotta contro l’imperatore Enrico IV e alla sua morte aveva lasciato alla Chiesa tutti i suoi dominii. Questi fatti erano sicuramente risaputi al tempo di Dante a cui, essendo egli filo-imperiale, non potevano certo essere graditi. E questa è la prima difficoltà. E tuttavia ne subentra pure un’altra. Noi sappiamo che Dante fissa i personaggi storici secondo i caratteri fisici e terreni, con una certa approssimazione e verosimiglianza. E parrebbe davvero strano che Dante abbia scelto, per simboleggiare una figura di eterna giovinezza, proprio una donna che morì settantenne. Ora la distanza e la diversità tra la vecchia Matilde di Canossa e l’eterna giovane donna del Paradiso terrestre, sembra davvero incolmabile sotto ogni riguardo (G. Giacalone).

   Altri hanno voluto identificare Matelda con Matilde di Hackeborn, autrice di un Liber specialis gratiae e morta in odore di santità, nelle cui rivelazioni alcuni hanno ravvisato anche lo schema del Purgatorio dantesco. Tale identificazione fu respinta dal Parodi e da altri a cui si deve aggiungere il fatto che risulterebbe impossibile la scelta di Dante per una donna a lui contemporanea, se la funzione purificatoria che Matelda adempie  (immersione nel Leté e nell’ Eunoè) non è straordinaria, ma usuale per tutte le anime. Mi pare che sul punto siano importanti le seguenti considerazioni di Umberto Bosco: “Il Paradiso terrestre non è un regno creato da Dio come l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso perché vi abbiano sede le anime: fu creato invece come luogo di delizie destinato all’uomo vivo; scacciato questo per il suo peccato … le anime vi passano soltanto per adempiere ai riti finali della purgazione. Non per nulla il poeta ci dice che l’alta selva del Paradiso terrestre è “vòta”. Matelda non può dunque essere l’anima di una persona fisica,dovendo allora essere necessariamente beata [e non perennemente esiliata nel Paradiso terrestre]”.

   Veniamo ora a Matelda-simbolo. Già nel canto XXVII Dante aveva sognato Lìa (contrapposta a Rachele) mentre andava cantando e cogliendo fiori. Lìa, simbolo della vita attiva, certamente prefigura la Matelda del Paradiso terrestre. Data anche questa prefigurazione essa rappresenterebbe quindi il simbolo della felicità terrena, in quanto preparazione alla vita contemplativa. Suggestivo, a questo proposito, l’anagramma del nome Matelda, suggerito dal francese Goudet, che, svolto con lettura alla rovescia, darebbe l’espressione ad letam (nel Latino medievale il dittongo ae si scriveva con la semplice ‘e’). Matelda sarebbe dunque l’intermediaria che conduce Dante a Beatrice che è laeta (leta), cioè beata.    La mia personale opinione, pur consapevole che sul tema non vi è nulla di incontestabile, è che Dante abbia creato ad hoc ed ex novo questa figura “che esprime la piena perfezione naturale della creatura umana al genere femminile (G.Giacalone)”. Matelda sarebbe dunque figura della donna così come era prima del peccato originale, nel suo stato di innocenza e di integrità: insomma una Eva senza colpa.

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