Te sovra te corono e mitrio

Il saluto di Virgilio a Dante e la fine dell’iter purgatoriale

   Siamo al tramonto nel Purgatorio e i tre poeti (Virgilio, Dante e Stazio) camminano nello stretto sentiero dell’ultima cornice, lasciato libero dalle fiamme, pena dei lussuriosi, provenienti dalla parete rocciosa. Ed ecco – siamo nel canto XXVII – che si presenta loro un angelo che canta “Beati mundo corde”, cioè la sesta beatitudine riportata nel Vangelo (Mt. V, 8) e li avverte che non possono andare oltre se non son “morsi” dal fuoco, invitandoli ad entrare in esso e a non esser sordi al canto che si sente “di là”, cioè oltre la cortina costituita dalle fiamme.

   A questo punto si rende necessaria una considerazione sul fuoco purificatore. Si pensa autorevolmente, così ci dice Umberto Bosco, che Dante si riallacci alla diffusa opinione che, essendo la nascita stessa dell’uomo legata alla concupiscenza, eredità del peccato originale, tutte le anime, una volta espiati i loro personali peccati, debbano ancora purificarsi da questa comune macchia originale. Inoltre, dopo la cacciata di Adamo ed Eva, “[Il Signore Iddio] pose dei cherubini a oriente del giardino di Eden, armati di spada fiammeggiante, per impedire l’accesso all’albero della vita” (Gen. III 24). Orbene, nella tradizionale esegesi cristiana le spade fiammeggianti dei cherubini indicherebbero una barriera di fuoco recingente tutt’intorno l’Eden. E Dante ha quasi certamente seguito questa interpretazione. Il Bosco poi mette in rilievo il carattere rituale dell’attraversamento del fuoco. Alla porta del Purgatorio infatti c’era stato il rito della confessione coi tre gradini di diverso colore (cfr. in proposito Il potere delle due chiavi in questa stessa rubrica della Via Pulchritudinis), cui corrisponde, all’uscita, questa purificazione in igni che significa il “ritorno dell’uomo allo stato di innocenza primitiva” (Nardi).

      Torniamo ai tre poeti. Dante è atterrito dalle fiamme e, nonostante le rassicurazioni di Virgilio, rifiuta di entrare nel fuoco e solo quando Virgilio gli dice che è l’ultimo ostacolo che lo separa da Beatrice, Dante, al solo sentir quel nome, finalmente si convince. Anche se tale fuoco non ustiona come in terra, produce tuttavia un terrificante calore, tanto che Dante usa un’iperbole: per rinfrescarsi si sarebbe addirittura gettato in un vetro “bogliente”.I tre poeti, guidati dal canto di una voce, giungono finalmente ai piedi di una scala rocciosa e da un angelo che lì si trova, sentono dire: “Venite, benedicti Patris mei”. Si tratta della prima parte delle parole di Gesù, in veste di giudice alla fine dei tempi. Si trovano nel Vangelo di Matteo e nella forma completa suonano così: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla costituzione del mondo” (Mt. XXV 34).

   L’angelo li invita poi ad affrettare il passo fino a quando, giunto il buio, si distendono, ciascuno, su un gradino roccioso. Dante, dopo aver notato che le stelle che riusciva a vedere dallo stretto camminamento in cui si trovavano erano più luminose del solito, prende sonno e sogna. Gli appare una giovane e bella donna che dichiara di chiamarsi Lia e che raccoglie fiori per farsi una ghirlanda, al contrario della sorella Rachele che si guarda allo specchio tutto il giorno. Lia, con tutta evidenza, è simbolo della vita attiva e Rachele della vita contemplativa. Secondo i più valenti dantisti Lia sarebbe prefigurazione di Matelda e Rachele di Beatrice che, entrambe, Dante incontrerà nel Paradiso terrestre.

   Quando il sole sta per sorgere, Dante si sveglia e Virgilio gli preannuncia che in giornata raggiungerà quella felicità terrena (che per terrestrem paradisum figuratur) a cui tendono tutti gli uomini e che anche lui brama. Dante allora raddoppia il desiderio e la volontà di salire. Arrivati i poeti alla sommità della scala, Virgilio parla a Dante con tono solenne dicendogli che fino a quel momento gli ha mostrato tutto ciò che era in suo potere mostrargli. In attesa dell’arrivo di Beatrice egli è libero di muoversi come vuole e da lui non deve più aspettarsi ‘né parola né cenno’. E conclude: “libero, dritto e sano è il tuo arbitrio,/ e fallo fora non fare a suo senno:/ perch’io te sovra te corono e mitrio” (Pg. XXVII,140-142).

   Dante ha raggiunto tutte le perfezioni a cui umanamente si può arrivare e, alla fine del cammino purgatoriale, Virgilio lo consacra “padrone di se stesso”. Il poeta fiorentino può dunque cominciare il suo tour tra le meraviglie del Paradiso terrestre.

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