La più grande e ricca allegoria della Divina Commedia

È la processione del Carro trionfale della Chiesa nel Paradiso terrestre

Purgatorio, Canto XXIX. Dante, in sincrono con la bella Matelda incontrata nel canto precedente e situata sulla riva del Leté opposta a quella del poeta, avanza contro-corrente a piccoli passi seguendo il corso del fiume che poi volge a levante. Non ha fatto in tempo a cambiar direzione ed ecco che una fortissima luminosità si diffonde per la selva, quasi come quella di un lampo. Non solo la vista però è colpita, perché insieme alla luce si diffonde una soavissima melodia. La luce poi si rivela di color rosso fuoco e la melodia come un canto corale. Dante sente la necessità, come poeta, di invocare le Muse e in particolare Urania, la Musa delle realtà celesti. Comincia ora l’allegoria. Dante vede, o così gli pare, sette alberi d’oro, ma quando questi si avvicinano (sono infatti semoventi), si accorge che questi sono candelabri a un solo braccio e nelle voci del canto riconosce la parola “Osanna”. L’interpretazione più comune dei candelabri è che rappresentino il settemplice spirito di Dio (Isaia, XI, 2-3), da cui derivano i sette doni dello Spirito Santo.

Dante rimane come stupito e confuso, ma viene esortato da Matelda a vedere ciò che segue. Dante ubbidisce e vede avanzare dei personaggi vestiti di bianco. Il poeta procede ancora sulla riva finchè la distanza che lo separa dai candelabri è solo quella del fiume. Le fiammelle che bruciavano sui candelabri lasciavano, avanzando, delle scìe luminose coi colori dell’arcobaleno e così lunghe che l’occhio non sapeva dove finissero. La distanza tra le strisce estreme era di dieci passi. Le sette scìe simboleggiano, come già detto per i candelabri, i doni dello Spirito Santo. I dieci passi tra le scìe estreme rappresenterebbero invece i Dieci Comandamenti, secondo la maggior parte dei dantisti.

Sotto quel “bel ciel” procedevano ventiquattro “seniori” ossia vegliardi, a due a due e coronati di fiordaliso. Tale descrizione derivava a Dante dall’ Apocalisse (IV, 4): “Attorno al trono poi, c’erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro vegliardi avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo”. È San Girolamo che nel Prologus galeatus interpreta i ventiquattro “seniori” come i ventiquattro libri dell’Antico Testamento. Gli abiti bianchi e i fiordalisi (non corone d’oro però) simboleggiano forse la fede nel futuro Messia che ebbero gli autori dell’ Antico Testamento. Tutti cantavano, evidentemente rivolti a Maria, “Benedicta tue/ ne le figlie d’Adamo, e benedette/ siano in eterno le bellezze tue” (Pg XXIX, 85-87).

Passati i ventiquattro “seniori”, si presentano a Dante quattro animali, ognuno “pennuto di sei ali” e coronato di verde fronda. La verde fronda è forse simbolo della speranza nella salvezza preannunciata dai Vangeli e le sei ali la rapidità di propagazione dei Vangeli stessi. Dante tiene comunque a precisare che lui si attiene al numero di ali (sei) segnalato da Giovanni nell’Apocalisse (Apoc.IV, 6-8) e non a quello di Ezechiele (Ezech.I, 4-14) che ne attribuiva loro solamente quattro. Le penne poi, conformemente a Giovanni, erano piene di occhi che, secondo san Girolamo, rappresenterebbero la potenza visiva del Verbo cristiano e la sua forza di penetrazione. Già nell’iconografia cristiana più antica gli evangelisti furono rappresentati con la figura di quattro animali: uomo alato per Matteo, leone per Marco, bue per Luca e aquila per Giovanni.

Nello spazio che si trovava “dentro a lor quattro” c’era un carro trionfale a due ruote, tirato da un grifone. Quasi tutti i commentatori antichi e moderni riconoscono nel carro la Chiesa. Diversi i significati attribuiti alle due ruote, ma quello prevalente è che si tratti dei due Testamenti su cui poggia l’autorità della Chiesa. Quanto al grifone, tutti i commentatori concordano nell’individuare in esso (animale dal corpo di leone e con testa e ali d’aquila) Gesù Cristo con le due nature, umana e divina, capo e guida della Chiesa. Le due ali del grifone, poi, andavano verso l’alto e si ponevano a destra e a sinistra della scia mediana. E così in alto salivano che non se ne vedevano le estremità. La parte superiore, quella d’aquila, era d’oro, la parte inferiore invece era mista di bianco e di vermiglio, a significare la carne e quindi la natura umana di Cristo. Il carro era di incomparabile bellezza, e assolutamente imparagonabile ai carri trionfali romani e addirittura a quello mitologico del Sole, come narrato da Ovidio (Met. II 107-110) nella descrizione del mito di Fetonte.

Dalla parte della ruota destra venivano danzando tre donne, rispettivamente vestite di colore rosso, verde e bianco. Dalla parte della ruota sinistra quattro erano invece le donne, tutte vestite di porpora e guidate nella danza da quella di esse che aveva tre occhi. E’ chiaro il simbolismo. Le prime tre sono le virtù teologali: bianca la Fede, verde la Speranza, rossa la Carità. E’ quest’ultima a guidare la danza, essendo la maggiore delle tre secondo San Paolo (1 Cor. XIII, 13). Le quattro donne sono le virtù cardinali; Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza. E’ la Prudenza con tre occhi, a significare una vista superiore, che guida la danza.

Dopo il gruppo descritto ecco due vecchi, uno dei quali è sicuramente San Luca, medico e seguace del sommo Ippocrate, autore degli Atti degli Apostoli e l’altro, armato di spada (spirituale, s’intende), è invece San Paolo autore delle Epistole. Seguono poi quattro personaggi di umile aspetto, autori di Epistole, minori tuttavia rispetto a quelle di San Paolo. Si tratta di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda. Infine, da ultimo ecco presentarsi un vecchio solo, assonnato, ma con la faccia arguta. E’ l’autore dell’Apocalisse, Giovanni, rappresentato dormiente perché l’Apocalisse è un libro di visioni avute in stato di estasi e la faccia è però arguta per indicare il valore profetico del libro. E questi sette, pur vestiti di bianco, non avevano una corona di gigli come i ventiquattro “seniori”, ma di rose e di altri fiori vermigli, il colore della Carità. Quando il carro giunge dirimpetto a Dante, si ode un tuono e la processione si arresta.

A quali fonti, ci si può chiedere, ha attinto Dante per questa lunga processione allegorica? E’ stata citata ad esempio, la processione della cripta del Duomo di Anagni e si è fatto riferimento a miniature di testi francescani od anche gioachimiti. E tuttavia pare a molti studiosi che la maggiore affinità sia rilevabile nella processione di martiri e vergini che decorano le due pareti della navata centrale della basilica ravennate di Sant’Apollinare Nuovo.

Al di là di ciò, per trarre conclusioni più generali sul significato dell’allegorica processione, mi pare utile ed opportuno citare le parole di Tommaso Di Salvo nella sua introduzione critica al canto XXIX: “La processione in cui si ritrova tanta parte del simbolismo medievale è una chiara rappresentazione della storia della Chiesa ed implicitamente dell’umanità… Nella sua sostanza Dante ha qui dato un’interpretazione simbolica delle forze ideali che sovrintendono alle vicende della storia umana. Nel Paradiso terrestre l’uomo non conobbe il peccato e fu innocente: poi, caduto nel peccato, potè risalire solo col soccorso della Chiesa fondata da Cristo. Partendo da questo dato, Dante che lega la sua vicenda di smarrito e traviato alla ricerca della salvezza, a quella universale dell’umanità che viaggia tra speranza e disperazione, prevede e profetizza un futuro di innocenza e di serenità per l’umanità solo attraverso il ritorno alla Chiesa, agli ideali che la fecero nascere e vivere, forte dispensatrice di carismi e di libertà per diversi secoli.” E conclude col Brezzi: “Se si vuole – come Dante ardentemente desiderava – che l’humana civilitas si rinnovelliche le virtù rivivano, che la giustizia torni nel mondo e la pietà autentica fiorisca, occorre che nuovamente il carro della Chiesa avanzi, che la grazia e la natura collaborino, che le autoritàecclesiastiche e civili s’intendano, ciascuna al suo posto. Si tratterà di una Chiesa rinnovata, conforme alle sue migliori tradizioni e libera dagli inciampi che essa stessa ha eretto sul proprio cammino; ma sarà sempre la Chiesa il fulcro del mondo e la luce della storia, la Chiesa con le sue strutture e i suoi riti, con l’Evangelo e i dottor magni, con il Pastore che guida a salvamento”.

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