L’apparizione di Beatrice velata

Da lei Dante è duramente accusato di traviamento dalla retta via

 Già nel canto XXIX la processione che si snodava al di là del fiume Letè (si veda al proposito il mio La più grande e ricca allegoria della Divina Commedia in questa stessa rubrica della Via Pulchritudinis) si era fermata con il Carro simboleggiante la Chiesa dirimpetto a Dante. Ora, all’inizio del canto XXX, i ventiquattro seniori rappresentanti i libri dell’Antico Testamento, si volgono al Carro e uno di loro grida tre volte e tutti gli altri dopo di lui “Veni, sponsa, de Libano”. Il riferimento è al Cantico dei Cantici (IV,8) dove, nell’esegesi cattolica, la Sponsa  è di solito interpretata come la Chiesa, ma qui non può esserlo, visto che la Chiesa è simboleggiata dal Carro. Quindi l’invocazione è certamente rivolta a Beatrice che sta sul Carro e rappresenta la teologia o scienza divina.

    A questo punto si levano in volo cento angeli gettando fiori, salutando la sposa con le parole  con cui lo stesso Cristo fu salutato alla sua entrata in Gerusalemme (“Benedictus qui venit in nomine Domini” e dicendo Manibus, oh, date lilia plenis, cioè “ Lanciate gigli (fiori) a piene mani”. La citazione è dall’Eneide (VI, 883), dove Anchise, di fronte al fiume Lete nell’Ade pagano, alla vista dell’ombra destinata a reincarnarsi in Marcello, nipote dell’Imperatore Ottaviano Augusto, morto in giovane età, pronuncia questa frase. Il Bosco non esclude che il verso Virgiliano sia l’estremo, accorato omaggio al poeta latino di cui è imminente la sparizione dalla scena.

   Così, dentro una nuvola di fiori, appare una donna vestita di un abito rosso sotto un verde mantello con il capo cinto di ulivo e coperta di un candido velo. I tre colori sono quelli delle tre virtù teologali: bianca è la Fede, verde è la Speranza, rossa è la Carità. La ghirlanda di ulivo sopra il capo può essere simbolo della sapienza, visto che l’accostamento ulivo – sapienza non è solo classico, ma, come ha sottolineato il Renaudet, anche biblico. A questo punto Dante, per una “occulta virtù che da lei mosse”, sente la gran potenza dell’antico amore. Ormai il poeta è certo che dietro il velo si cela Beatrice e si sente smarrito e confuso. Si volge allora a Virgilio per comunicargli la forte emozione che prova. Ma Virgilio, il “dolcissimo patre” che l’aveva condotto fin lì è scomparso e Dante si mette a piangere.

   Subentra allora Beatrice che dal Carro, chiamandolo per nome, lo invita a non piangere per la sparizione di Virgilio, ma per motivi ben più gravi. Ella si manifesta in modo esplicito: “Ben son, ben son Beatrice” e poi gli fa una domanda: “Come degnasti di accedere al monte?” Di questo verso sono state date due interpretazioni. La prima intende: ‘Come hai potuto ritenerti degno o capace di salire al monte del Paradiso terrestre’? L’altra dà a ‘degnasti’ un senso ironico, quasi che Beatrice dicesse: ‘ti sei finalmente degnato di pentirti e di giungere fin qui’? Cert’è che in un contesto di severità risulta arduo attribuire un significato ironico alle parole di Beatrice. Così pare al Bosco ed io concordo. Dante comunque decide di guardare il suo volto nelle limpide acque del Letè, ma, vedendosi in esso, si tira indietro, tanta è la vergogna che lo coglie.

   Gli angeli, sempre presenti in tutta la scena, si impietosiscono di Dante  e subito intonano “In te Domine speravi”.  Si tratta del salmo XXX e Dante dice che non andarono oltre l’espressione ‘pedes meos’, cioè si limitarono ai primi otto versetti. Insomma gli angeli, con un canto di speranza e di misericordia divina giustificano il perché della sua salita al monte. Dante, che era rimasto colpito e addolorato dalle dure parole di Beatrice, ora è commosso dalla compassione degli angeli e si lascia andare a pianti e sospiri.  Beatrice però, stando sempre ferma sul Carro, si rivolge agli angeli con l’intenzione dichiarata che l’ascolti ”colui che di là (cioè dalla riva opposta del Letè) piagne”.

   Ella afferma che il poeta ricevette in vita dalla Natura e dalla Grazia divina tali disposizioni naturali che, volte al bene, avrebbero prodotto in lui una mirabile riuscita. Ella, da giovane e fino alla propria morte, lo mantenne sulla retta via con la sua presenza. Tuttavia, una volta morta, Dante “diesse altrui”, cioè si diede ad altro o ad un’altra. Qui l’allusione è al racconto della Vita Nuova (XXXV – XXXVII), cioè all’episodio della donna gentile di cui Dante stava per innamorarsi dopo la .morte di Beatrice, “onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai”. Sembrerebbe dunque questo il traviamento a cui allude Beatrice. Molti studiosi pensano che sia proprio così. E tuttavia, come ci ricorda il Di Salvo, in un’altra sua opera, il Convivio, Dante spiega, senza altre possibili interpretazioni, che la gentile donna era la filosofia. Non sarebbe dunque stato infedele alla sua donna, ma a ciò che essa rappresenta nel poema, cioè la fede rivelata e la teologia e a queste Dante avrebbe preferito l’umana ragione. Alcuni pensano addirittura che il poeta fiorentino potrebbe aver creduto di trovare la verità in dottrine filosofiche al di fuori della Rivelazione. La questione rimane comunque irrisolta. Rimane il verso “e volse i passi suoi per via non vera” (Pg. XXX, v.130). Non valsero, dice ancora Beatrice, sogni e visioni a richiamarlo sul retto sentiero. E tanto si era allontanato che non rimase altro che mostrargli “le perdute genti”.  Ecco perché – dice – mi recai in Inferno e mi rivolsi a colui che lo ha fin qui condotto, cioè Virgilio. Tuttavia, nonostante le purificazioni purgatoriali, rimaneva la necessità di ulteriore pentimento e pianto. Teniamo presente che Beatrice ha sempre parlato velata e, se è vero che essa rappresenta la sapienza teologica, non potrà essere vista da Dante se non quando sarà cancellato in lui anche il ricordo dei peccati e questo sarà possibile con l’immersione nel fiume Letè che avverrà successivamente.  Solo allora Beatrice si “svelerà”. Ecco comunque (ai vv. 142-145) le precise parole con cui essa chiude il XXX canto: “Alto fato di Dio sarebbe rotto,/ se Letè si passasse e tal vivanda/ fosse gustata sanza alcuno scotto/ di pentimento che lagrime spanda”.

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