Oscar Sanguinetti, Per una reazione spirituale italiana. La militanza letteraria di Giuliotti “il salvatico”, D’Ettoris Editori, Crotone 2021.

      Nel canone letterario del Novecento è ben difficile trovare oggi il nome di Domenico Giuliotti e se chiedessimo ad una qualsiasi persona mediamente acculturata di dirci qualcosa su di lui otterremmo solamente un totale silenzio. Per le persone più acculturate entrerebbe nel canone, ma solo di striscio, e solo per l’amicizia con Federigo Tozzi e Giovanni Papini. È merito di Oscar Sanguinetti aver ripropostola figura di Domenico Giuliotti (1877-1956) che a suo tempo ebbe una ricezione esplosiva seguita da una progressiva sfortuna fino al quasi completo oblìo dei giorni nostri.

     Ecco alcune definizioni per inquadrare la figura di Domenico Giuliotti: omo salvatico, solitario di Greve in Chianti, malpensante, cattolico belva.  Fu sempre cattolico il Giuliotti? Risposta negativa. Abbandona la fede cristiana nell’adolescenza e fino a circa trent’anni si professa “aridamente ateo e, in politica, prima ferventemente mazziniano poi ardentemente anarchico-socialista”. Nell’Italia di fine Ottocento e inizi del Novecento si imponevano il ‘crepuscolarismo’ alla Gozzano, nonché i vari ‘pascolismi’ e gli ‘estetismi’ di impronta dannunziana. A livello cattolico, esauritasi la stagione manzoniana, si assiste al successo dei romanzi di Antonio Fogazzaro che presentano venature modernistiche, particolarmente rilevabili in Daniele Cortis, Il santo e Leila. Giuliotti si rende conto “dell’estenuazione e dello svigorimento delle lettere italiane” e fra il 1908 e il 1910  avverte i ricordi dell’antica religiosità familiare che fanno maturare in lui il ritorno alla fede, grazie anche all’amicizia con Federigo Tozzi. Nasce allora in Giuliotti la consapevolezza della crescente emarginazione delle lettere religiose e la riscoperta della vita soprannaturale accompagnata da una sempre più lucida percezione “dei pesanti limiti della civiltà moderna secolarizzata e scettica e, di più, nemica di ogni prospettiva metafisica”. Quale missione si deve dunque prefiggere un letterato cristiano? In una Lettera a Giovanni Papini, riproposta da Sanguinetti, così Giuliotti si esprime:

      “Dire […] agli uomini del nostro tempo (e dirlo con grande fede, con grande amore, con grande anima): voi siete (o meglio noi siamo) caduti in un abisso buio, pieno di mostri (alcuni creati da noi stessi) che stanno per divorarci. Ma la salute l’abbiamo vicina, anzi in noi: ed è quella stessa che apparve una notte d’inverno, venti secoli fa, in una stalla. C’è la scala, ritta, luminosa, indistruttibile, da questo abisso al trono del Re Paterno. Questa scala è Cristo. Noi lo abbiamo rinnegato, calpestato, risputacchiato, ricrocifisso, riucciso; ma è l’eterno risuscitante, è l’apparente morto, e l’unico vivo, è lui solo la Vita, e dà la Vita a noi, se riconosciamo che lui solo è la Vita. Noi lo bestemmiamo, lo dimentichiamo, lo ignoriamo; lo sostituiamo con idoli vecchi e nuovi; e Lui (il Giudice, che condanna costretto, e piangendo) ci ama di più, soffre per noi di più, sparge, con più effusione, per redimerci, il suo inarrestabile sangue. Far sentire, oggi, all’umanità discentrata, che Cristo, sebbene sconosciuto o mal conosciuto, è ancora al centro e all’apice dell’Umanità; che lui solo ‘stat, dum volvitur orbis’; che tutto, anche ciò che s’è staccato da Lui, gira intorno a Lui; che tutto dovrà infine riattaccarsi a Lui, sia come nostro divino Fratello, figlio del comune Padre, sia come nostro definitivo condannatore. La chiave insomma per aprire il mistero dell’Universo è Cristo e solo Cristo”.

     Quanto allo stile, dice Sanguinetti nella Premessa: “La prima cosa che colpisce in Giuliotti è … un modo di scrivere già al suo tempo desueto nella letteratura di ispirazione cristiana. Il chiantigiano piuttosto che scrivere, scaglia, sputa parole, spara bordate deflagranti, appioppa epiteti brucianti, bolla con neologismi aggettivanti – infarciti di termini che specialmente nei testi rivolti agli amici, rasentano, talora cadendovi proprio, il turpiloquio – tratti, deformandoli o acconciandoli alla bisogna, dal suo toscanismo esuberante. La sua prosa febbrile colpisce, contunde, abrade, escoria – i termini si sprecherebbero … -, prende per la cravatta gli errori e i vizi del suo tempo, tutto ciò che ritiene alieno od ostile a un cattolicesimo ‘duro e puro’, irriducibile al moderno, senza farsi scrupolo di distinguere fra errore ed errante, certo come una roccia che senza erranti non esisterebbe l’errore. E di se stesso dice Giuliotti:

    “Son maleducato, brutale, osceno, barbaro, scandaloso e teppista. Lo so. Ma è un peccato del quale non mi pentirò mai. Odio le circonlocuzioni ovattate e gli spruzzi profumati sulle parole. Questa lercia società che si rotola, insatirita, sull’untume sanguinoso dei suoi fogli da mille, vorrebbe dell’ideale in sostituzione di Cristo. Io le fo rimangiare il proprio vomito”. 

     E poi, quanto allo stile, ecco ciò che scrive dell’allora osannato “Vate” Gabriele D’Annunzio, dichiarando:

“[…] no, all’ebete schiamazzante, al retore ditirambico, al rigattiere dionisiaco, al porco orfico, al priapo mistico, al tacchino liturgico, all’Artusi del vocabolario, al comandante della sputacchiera, al cadavere inorpellato che brilla e appesta (sebbene io sia ½ e lui 1000) non posso concedere attenuanti. Se ha lavorato molto (come, pur troppo è vero) peggio per lui. Tutta la sua opera, (cristianamente parlando) è detestabile. E che m’importa che abbia fatto ‘scintillare, come pochi, la lingua del suo popolo (la nostra)’, quando, invece di darle ali grandi e purissimo canto che la portassero verso il Paradiso, a lodare Iddio, l’ha strascicata su tutti i tumori purulenti della più abietta sensualità e della retorica più contagiosa?”.

    Il bersaglio preferito del “malpensante” Giuliotti è la civiltà moderna. Scrisse infatti:

     “Io sono un dichiarato, un aperto, un irriducibile nemico della civiltà moderna. Questa sozza baldracca turpiloquente, vestita d’oro e ripiena di vermi, dov’ha toccato ha appestato. Essa ha innalzato i meccanici al di sopra dei poeti, i banchieri al di sopra de’ santi, il Diavolo al di sopra di Dio. Perciò l’odio. Essa, la stolta avrebbe dovuto, quand’era tempo, buttarsi in ginocchio, per salvarsi, ai piedi di Cristo; avrebbe dovuto lavarli con le sue lacrime, asciugarli con i suoi capelli, ungerli col più prezioso dei suoi unguenti. Invece, inorgoglita dalla propria grassezza bolsa, ha levato, tra i battimani degli innumerevoli suoi drudi, la fronte impudica, e alla Luce del Mondo, bestemmiando, ha sputato in faccia”.

     A questo punto non si può non parlare dell’avventura editoriale della rivista La Torre, “organo della reazione spirituale italiana”, fondata a Siena nel 1913 insieme a Federigo Tozzi e a Ferdinando Paolieri, foglio di orientamento cattolico neo-intransigente, di cui usciranno fino al 1921 solo undici numeri. Il manifestino di propaganda a stampa che annunciava l’uscita de La Torre la presentava così:

     “[La Torre] combatte ogni ambiguità letteraria e politica, ogni oscurità massonica, ogni negazione democratica; e prepara alla giovinezza ritornante dell’Italia una sua nuova e migliore primavera cattolica. Liberare, dunque, l’Italia degli inutili detriti avanzati al crogiolo della sua rivoluzione, dai calchi malfatti su le moderne filosofie straniere, dal borioso positivismo, e da tutto ciò che essendo contro Dio, è contro la natura umana, è il programma della Torre;  rinnovando, con i modi della più recente cultura, le immutabili idee cattoliche.  […] Sappiamo che taluno fingerà di credere che vogliamo fare un futurismo o un altro modernismo cattolico; ma a costui noi rispondiamo semplicemente che la nostra battaglia è violenza di fede e limpidezza morale, al fianco della Chiesa, per una strada nostra. […]  Bisogna farla finita con i balbettamenti delle filosofie negatrici e scettiche, approvate dallo sghignazzìo grottesco dei bei pappagalli innalzati ad educatori; bisogna ritornare da vero alla nostra religione; e bisogna, senza reticenze e con la volontà di vincere a tutti i costi, imporre su tutto l’indiscutibile superiorità cattolica, morale e intellettuale. Noi non siamo preti; ma vogliamo la Chiesa cattolica, perché crediamo in Dio e perché non sappiamo trovare, quantunque non docili, un’altra espressione sociale che le possa essere paragonata”.

     Quanto detto e riportato potrebbe forse bastare per farsi un’idea di Domenico Giuliotti come uomo, come cattolico e come scrittore, ma numerosi sono gli altri aspetti che Oscar Sanguinetti mette in luce, per cui propongo qui, innanzitutto, l’indice del saggio: 

Perché Domenico Giuliotti? Invito alla lettura di Alessandro Scarsella, docente di Letterature comparate presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Premessa  di Oscar Sanguinetti, Cenni biografici, Le idee, Le “stagioni giuliottiane”, Le relazioni, L’amicizia con Giovanni Papini, L’opera, In conclusione. Il saggio è anche corredato da una serie di testi scelti in prosa e in poesia e presenta, in fine, la nota di Giovanni Cantoni su Giuliotti e Gómez Dávila.

     Certo, l’omo salvatico  potrebbe apparire un isolato, ma così non è, anche perché settimanalmente si recava a Firenze che raggiungeva con la diligenza postale prima e, più tardi, con un trenino a vapore, riproposto in foto all’interno del volume. Nel capoluogo toscano frequentava i caffè, come il celebre “Le Giubbe Rosse”, ritrovo di letterati toscani e non, ed era cliente abituale delle numerose bancarelle di libri usati, nonché visitatore delle officine di editori amici. E poi, pur ritirato a Greve in Chianti, riceveva frequenti visite da parte di amici, di simpatizzanti, di intellettuali di ogni orientamento. Quanto al Fascismo, egli manifestò un certo apprezzamento per l’uomo Mussolini e per la sua parola – parlata o scritta – “chiara, precisa, lucida e ferrea e, perciò, in antitesi perfetta con quasi tutti i cotidiani anneritori di carta bianca”. Ma ebbe anche a dire: “Non ho la tessera, non uso il dizionario in uso, non fo, irrigidendomi, il saluto romano al mio gatto”. E fu consapevole delle anime rivoluzionarie presenti nel Fascismo: idealismo, neo-paganesimo, futurismo, dannunzianismo, cavourrismo, garbaldinismo, mazzinianismo. Fu infatti decisamente antirisorgimentale e avrebbe voluto pubblicare una silloge dal titolo I reazionari italiani del Risorgimento, dodici “sepolti vivi” secondo Giuliotti, e l’editore avrebbe dovuto essere nientemeno che Piero Gobetti. Costretto quest’ultimo ad andare in esilio a Parigi, a causa del suo antifascismo dichiarato, il progetto editoriale fallì. L’opera, dice Sanguinetti, era sviluppata abbondantemente e se esistesse, come crede, l’originale di questo lavoro giuliottiano, esso meriterebbe senz’altro di essere pubblicato. 

     L’ora di Barabba è certamente il libro più noto di Giuliotti. Si tratta di una raccolta di articoli e saggi dallo stile acre e graffiante e così lo presenta l’autore: “Dopo venti secoli, Gesù è ancora in agonìa sulla Croce, solo. […] Ma Barabba, assolto, illuminato dai suoi delitti, conquista il mondo. Queste pagine sono state scritte ed appaiono durante la sua marcia infernale” .  E ancora: ”Nel complesso questo libro è un attacco a fondo, con tutti i proiettili che mi son venuti alle mani, contro la miserabile, sterile, velenosa ed arrabbiata boria dell’anticristianesimo del mio tempo. Io non sono figlio del mio tempo”. Il libro  produce le reazioni dell’ establishment della penisola, tra cui la più radicale si può considerare, così dice Sanguinetti, quella del filosofo liberale torinese Piero Gobetti che, pur dichiarando di essere in totale antitesi con Giuliotti, dichiara di avere per lui profonda stima, apprezzandone la rude sincerità, la terribile coerenza ideale e una limpida fede, ingenua e combattiva, nella trascendenza.

     C’è poi  il Dizionario dell’omo salvatico, il testo che si ferma alla lettera B e che rappresenta il momento di maggiore vicinanza con l’amico Papini. A proposito dell’aggettivo salvatico Sanguinetti ricorda che secondo Giovanni Cantoni la scelta anacoretica  di Giuliotti assomiglia molto alla ricerca di uno di quei “covili d’uomini” ricavati dalle selve, contrapposti da Giambattista Vico alle selve delle città, alle città divenute selvagge, sì che appunto gli uomini che tali covili abitano vengono qualificati dai cittadini come “selvaggi” o come “omini salvatici”, “uomini dei boschi”. Il corpo del Dizionario è costituito da 928 voci, 375 redatte da Giuliotti e le altre dall’amico Papini. Sono presenti sedici profili di tipi umani accompagnati da altrettanti nomi-epiteto, presi a bersaglio per il loro abbraccio con la modernità: dal moderato al sulfureo anticristiano, dal riccone al medico materialista, dal ragioniere al ‘pezzo da novanta’, dal baciapile al burocrate, dal conferenziere di grido al faccendiere, dal milite ligio allo Stato al commerciante astuto, dall’intellettuale temperato al radicale, dalla vedova allegra alla ‘cocotte’.

     Altre opere: Tizzi e fiamme, Pensieri di un malpensante e successivamente Nuovi pensieri di un malpensante. Mi fermo qui e per tutte le altre opere rimando al testo di Sanguinetti (pagg. 101-103).

     Un capitolo consistente del volume è dedicato all’amicizia con Giovanni Papini. Anche quest’ultimo attraversò una lunga stagione di ateismo, anticlericalismo e tentazioni “futuristiche”. Negli anni tra il 1910 e il 1920  Giuliotti seguì a distanza  l’amico impantanato nella palude della miscredenza, ma alla fine, nel 1921 Papini, dice Sanguinetti “dopo un lungo processo di avanzate e ritirate – passando dall’anti-modernismo al ‘cristianesimo senza Chiesa’, infine al cattolicesimo romano, si converte”. E Giuliotti lo accoglie “come fratello nella fede e amico cristiano, inaugurando un legame umano e un sodalizio affettuoso e fecondo”. Non mancheranno tuttavia le divergenze e, alla fine, le posizioni di Papini risulteranno esplicite. Dice ancora Sanguinetti che il cattolicesimo del convertito Papini è “più morbido, meno radicale nella sua opposizione alla modernità, risente meno delle influenze della scuola antimoderna ottocentesca più fedelmente indossata da Giuliotti”. Quanto alla partecipazione del chiantigiano ala vita ecclesiale, pare  decisamente limitata agli appuntamenti liturgici ordinari. Mai andò in cerca di protezioni e favori di prelati più o meno altolocati, fiero com’era della sua laicità di cattolico e di scrittore cattolico che aveva comunque ben individuato il filo rosso che dopo il Medioevo era arrivato al mondo moderno. Scriveva infatti già nel 1920: “Il Rinascimento, la Riforma, la Rivoluzione Francese, il Liberalismo, il Socialismo e l’Anarchia derivano l’uno dall’altro e formano gli anelli dell’attuale catena che, in nome dell’idolatrata libertà, ci fa tutti schiavi”.

     Alessandro Scarsella, al termine del suo invito alla lettura dice: “Sanguinetti ha messo inizialmente le carte in tavola davanti a Giuliotti, poi ha giocato a carte scoperte con il lettore, secondo una prassi di trasparenza da considerare esemplare e giovevole alla critica”.

     Concludo allora con alcune considerazioni dello stesso Sanguinetti: “Non è pensabile che sia oggi possibile esprimersi nei termini esageratamente crudi dello scrittore toscano, anche perché le sue medesime finalità vanno oggi meglio perseguite in termini e toni diversi”. Ciò premesso, così conclude: “Credo che Giuliotti – alla stregua degli altri due grandi anti-moderni che preferirono l’emarginazione all’auto da fé nel progresso, Thibon e Gómez Dávila – sia una figura che sia obbligatorio conoscere se si vuole, come ha fatto lui, combattere contro  il virus dissolutore di ogni valore metafisico di cui è veicolo la modernità radicale”.

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