San Cipriano, il più grande scrittore latino-cristiano del III secolo

Additato da Lattanzio come il più eminente degli scrittori cristiani, vescovo di Cartagine al tempo delle persecuzioni di Decio e Valeriano, subisce il martirio nel 257.

di Leonardo Gallotta

Tascio Cecilio Cipriano nacque tra il 200 e il 210 in Africa, quasi certamente a Cartagine, come riporta la Vita Cypriani scritta dal diacono Ponzio, il quale ci parla della sua casa e dei suoi giardini come di naturale possesso del Santo. Era dunque appartenente ad una ricca famiglia pagana, grazie alla quale ricevette un’accurata formazione letteraria e retorica così da svolgere poi l’attività di insegnante fino al momento, nel 246, della sua conversione. Dopo essere stato avviato alla fede dal prete Ceciliano, distribuì buona parte dei suoi averi al popolo. Divenuto precocemente presbitero, nel 248 viene chiamato a guidare la Chiesa di Cartagine dopo la morte del vescovo Donato. Tuttavia, di lì a poco viene emanato nel 250 l’Editto contro i cristiani dall’imperatore Messio Quinto Decio esteso a tutte le province dell’Impero e quindi anche a Cartagine.

La paura provoca cedimenti ed anche apostasie tra i cristiani, ma molti non vogliono sacrificare agli dei, né fare libagioni né mangiare le carni delle vittime sacrificali e scelgono di subire il martirio. Cipriano, per non privare i fedeli della sua guida, si rifugia in una località non distante da Cartagine e da lì governa la sua Chiesa fino alla fine della persecuzione. Anche da fuori Cartagine il Vescovo, pure angosciato di non essere vicino ai fratelli esposti alla prova, non manca di far pervenire loro la sua parola di esortazione e di conforto.

“Gemma dell’epistolario ciprianeo – così si esprime Ettore Paratore – è la lettera sesta in cui il Santo si indirizza ai martiri imprigionati in attesa del supplizio; la calcolata eleganza ciprianea si fa qui fluida, commossa eloquenza, canto spiegato di fede e di gioia, creando una delle pagine più alte della letteratura cristiana nell’età delle persecuzioni”. È una lunga lettera in cui esorta i cristiani a non pensare alla morte, ma all’immortalità, ad aver la certezza che dopo il supplizio regneranno insieme con Cristo Signore e a calpestare sotto i loro piedi i supplizi presenti col pensiero della gioia futura. La lettera si conclude col richiamo al celebre episodio dei tre giovanetti ebrei che, non avendo voluto sacrificare alla grande statua di un dio fatta costruire dal Nabucodonosor, furono rinchiusi in una fornace. La loro grandissima fede fu da Dio premiata, così che videro estinguersi il fuoco intorno a loro e le fiamme dar luogo ad un gradevole refrigerio al posto del fortissimo calore della fornace (così Daniele, 3, 16-18). E con le seguenti parole termina l’epistola: “[Dio Padre] conceda la corona a coloro che ha già spinti alla confessione. Desidero che voi, fratelli carissimi e beatissimi, vi conserviate sempre forti nel Signore e giungiate alla gloria della corona celeste”.

Finita la persecuzione di Decio e rientrato in città, un’altra sventura colpì gli abitanti di Cartagine, ossia una terribile pestilenza che si protrasse per tre anni. Non c’era però tregua e nel 257 si ebbe una nuova persecuzione ordinata dall’imperatore Valeriano. Questa volta a farne le spese fu lo stesso Cipriano che, arrestato e mandato in esilio, fu poi ricondotto a Cartagine dove fu processato e condannato a morte per decapitazione (come risulta dagli Acta proconsularia Cypriani), morte che avvenne nel 258.

Passando a considerare la sua produzione, non possiamo esimerci dal confronto con quelle di Minucio Felice e di Tertulliano nella battaglia contro il paganesimo. Questi si erano soprattutto impegnati a confutare le accuse nei confronti dei cristiani e ad attaccare i culti pagani, riservando poco spazio alla dottrina cristiana. Non così in Cipriano che nell’Ad Donatum, lo scritto apologetico più importante del nostro autore, vuole soprattutto evidenziare gli effetti benefici che il cristianesimo produce nelle anime, raccontando la mirabile trasformazione operata in lui dalla conversione alla fede cristiana. Il cristianesimo, insomma, apre nuovi orizzonti rispetto ad una società idolatra, dedita soltanto ai piaceri mondani e volta alla ricerca di onori, ricchezze e potere. In Cipriano, per la prima volta, il termine “apologia” che significa letteralmente “discorso in difesa”, passa a quello di “esaltazione”, laddove è chiaro l’intento volutamente propagandistico della grande “novità” cristiana”.

Il problema dei “Lapsi”

Cipriano, come vescovo di Cartagine, si trovò ad affrontare la questione dei lapsi. Si trattava di coloro che durante la persecuzione di Decio per paura avevano rinnegato la fede cristiana, ma poi, finita la persecuzione, chiedevano di essere riammessi nella comunità ecclesiastica. Tuttavia non tutti si trovavano nella medesima situazione. Vi erano i sacrificati, cioè quei cristiani che avevano abiurato compiendo sacrifici sugli altari degli dei pagani; poi c’erano i thurificati, ossia quelli che si erano limitati a bruciare incenso, ma non avevano compiuto riti sacrificali; infine i libellatici, vale a dire i cristiani che, corrompendo qualche funzionario, erano riusciti a farsi rilasciare l’attestato (libellus) di aver compiuto i sacrifici prescritti anche se non vi avevano preso parte. Sulla questione dei lapsi vi erano due posizioni contrapposte: quella dell’intransigente Novaziano che a Roma si opponeva a quella moderata del vescovo Cornelio e quella di Novato e del diacono Felicissimo che a Catagine sostenevano la tesi del perdono senza condizioni. La soluzione di Cipriano – che scrisse sul tema il De lapsis – fu equilibrata: i lapsi potevano essere riammessi nella comunità cristiana solo dopo un periodo di penitenza adeguata al grado di colpa commessa. Tale soluzione concordava peraltro con quella del Vescovo di Roma.

Altra questione che dovette affrontare Cipriano fu quella della validità del battesimo conferito dagli eretici. Cipriano, pure in contrasto con Papa Stefano I, riteneva che fosse necessario un nuovo battesimo. Tuttavia la questione si allargava al problema del primato petrino. Cipriano sosteneva la necessità di un capo della Chiesa universale che non poteva che essere il Vescovo di Roma in quanto erede diretto di Pietro. Tuttavia tale primato avrebbe dovuto essere più onorifico che reale e non concretizzarsi in un potere basato sul diritto. Il primato petrino dovrebbe solo indicare che la Chiesa è una pur nella molteplicità dei pastori che reggono la massa dei fedeli, in quanto la cattedra di Pietro è costituita dall’intero episcopato. Nell’opera De Ecclesiae Catholicae unitate dice Cipriano: “ [La Chiesa] è come il sole che ha molti raggi, ma una sola è la sorgente della luce … come l’albero che ha molti rami, ma solo uno è il tronco … come una sorgente che è una sola, ma da essa sgorgano parecchi ruscelli”. Occorre comunque dire che le considerazioni di Cipriano sull’unità della Chiesa non si concretizzarono mai in una proposta concreta sul piano della prassi.

Numerose sono le opere di Cipriano e qualcuna l’abbiamo già menzionata. Per motivi di spazio diamo qui solo l’elenco delle altre: Ad Demetrianum, De bono patientiae, De opere et elemosynis, De zelo et livore,De dominica oratione, De habitu virginum, Ad Fortunatum de exhortatione martyrii, De mortali tate, Testimonia ad Quirinum. C’è anche il Quod idola dii non sint, ma di quest’opera è dubbia l’autenticità. Non può infine non essere ricordato l’Epistolario, comprendente 81 lettere, 16 delle quali indirizzate a Cipriano da vari corrispondenti. È sicuramente tra i più cospicui epistolari della Cristianità.

Quanto allo stile ciprianeo, possiamo dire che la sua scrittura è armoniosa e che risente molto della struttura sintattica classica, specialmente di quella ciceroniana. E classica – ricordiamoci che era stato maestro di retorica – appare la sua cultura, evidente dai generi utilizzati: le epistole, il protrettico (discorso esortativo), il genere consolatorio col De mortalitate (si pensi alle consolationes da Cicerone a Seneca). Se tutto questo è vero – e lo si evince chiaramente – si deve dire che nelle sue opere, scritte tutte dopo la conversione, i riferimenti espliciti sono soltanto quelli alle Sacre Scritture.

La figura di Cipriano, la sua opera e il suo martirio aumentarono immensamente il prestigio della Chiesa africana. Già Lattanzio (250-325 d.C.) lo additò come il il più eminente degli scrittori cristiani. L’importanza della sua figura sui grandi problemi della disciplina ecclesiastica e la sua autorità di martire (egli fu l’unico martire tra i grandi autori della letteratura latina cristiana) fecero sì che le sue opere fossero lette moltissimo nel Medioevo. Basterebbe pensare che il solo Epistolario ci è stato tramandato da oltre 150 manoscritti. Venerato come martire, San Cipriano è ricordato dalla Chiesa cattolica il 16 settembre.

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