Pellegrini e Crociati: Chateaubriand e Chesterton a Gerusalemme

di Antonio Antonioni

1 – Premessa –  2. Chateaubriand a Gerusalemme –  3. Intermezzo: pellegrini e crociati –  4. Chesterton a Gerusalemme.

  1. PREMESSA

Nessun’altra città, neanche Roma, Parigi, Venezia, Mosca o Costantinopoli, è, come la piccola (1) e povera Gerusalemme, ricca di simbolo, allegoria e mistero. Pareva molto saggia, poiché è questa la città santa di tre religioni, molto saggia e pacificatrice quella proposta di darle un regime politico internazionale, sostenuta nel Novecento dalla Santa Sede (2); proposta respinta concordemente dai contrastanti poteri del mondo, anche se (o proprio perché) molto di meno costerebbe il realizzarla che prolungare all’infinito la strategia della tensione di cui essi si alimentano. Condizione del mondo incompatibile con qualsiasi idea di respublica christiana, a differenza di quel saggio compromesso.

   Come cittadini di quella repubblica, dopo tanti altri, visitarono Gerusalemme in tempi moderni due scrittori, e d’un tale pellegrinaggio vorrei qui seguire idealmente le orme; spinto come da una certa simpatia spirituale che mi attira a quei luoghi, sebbene Gerusalemme, diversamente da altre città del Levante di cui mi è capitato di scrivere recentemente (3), io non l’abbia mai vista. Non essendo esperto, né del luogo, né delle vicende storiche, e neanche delle studio letterario relativo ai due autori, darò delle semplici impressioni di lettura, o meglio ancora un invito alla lettura, anche a chi possa esserne indotto a trattar queste cose in modo più adeguato.

   E le Crociate che c’entrano? Non è che andassero armati per liberare i luoghi santi, i nostri due autori (4) (né, s’intende,  alcun altro ai loro tempi); ma erano, come abbiam detto, pellegrini, e delle Crociate, nel racconto della loro esperienza, ne parlano spesso e volentieri. Ora “il fatto che la crociata abbia potuto essere vissuta come il supremo e ultimo (5) pellegrinaggio, oppure come una guerra santa per liberare i luoghi santi dall’infedele, e salvaguardarne l’accesso a una cristianità peregrinante, stabilisce tra il pellegrinaggio e le crociate corrispondenze intime e illuminanti. Più precisamente si può dire che la crociata, nella sua epica celebrativa e nella realtà storica, mette a nudo alcune componenti fondamentali del pellegrinaggio, su cui essa si basa” (6).

2 .  CHATEAUBRIAND A GERUSALEMME

Nous voguâmes vers Jérusalem sous la bannière de la croix…

   Da Parigi il 13 luglio 1806 parte il cavaliere (poi visconte) (7) François-René de Chateaubriand, pellegrino singolare per più ragioni (le vedremo subito). Ha trentasette anni, è già noto come autore di Atala e del Genio del Cristianesimo; e un libro nascerà  direttamente da questo viaggio, che già doveva servire anche per raccogliere esperienze e notizie utili in vista della più impegnativa opera dei Martyrs. Quel libro avrà il titolo molto suggestivo di Itinerario (8): nome che richiama l’attenzione non solo sulla meta, alla quale soltanto si mira nei viaggi moderni (persino i pellegrinaggi si fanno oggi in aeroplano!) (9), ma anche su tutti i luoghi incontrati, i momenti vissuti, i passi compiuti (10), i fatti occorsi durante il cammino; essendo il pellegrinaggio, come in una scala minore la processione, una specie di allegoria della vita dell’uomo, viator su questa terra, diretto alla patria che è la Gerusalemme celeste.

   E infatti di ogni passo, si può dire, del suo percorso ci dà l’autore i ragguagli anche i più minuti; se si toglie la prima parte di esso, fatta per via di terra, da Parigi a Milano, quindi a Venezia, e quindi a Trieste, sbrigata in poche parole, benchè a Venezia si sia fermato cinque giorni a vedere i monumenti: ma non c’era sin qui niente che non fosse ai lettori già abbastanza noto. A Trieste s’imbarca il 29 luglio accompagnato dal suo domestico Giuliano, su un veliero austriaco (11) diretto in Levante; e qui, da questa riva dove “le dernier souffle de l’Italie vient expirer” e “la barbarie commence” (p. 55) è il vero inizio del pellegrinaggio.

   Che si considerasse non solo un pellegrino ma anche in qualche modo erede degli antichi Crociati, l’aveva già detto espressamente (p. 53); ma inoltre, diversamente da quelli, si sentiva straniero nel suo stesso paese (p. 54): ecco dunque che tra i motivi del viaggio s’insinua il sentimento romantico dello spirito inquieto alla ricerca d’una vita più vera. Nell’antico regime aveva iniziato da buon cadetto la carriera militare, prima in marina poi nell’esercito; a ventiquattro anni, quattro mesi dopo essersi sposato, era emigrato come molti altri nobili per sottrarsi al terrore giacobino, ed era stato ferito combattendo a Thionville; ma aveva prima ancora visitate le terre allora del tutto selvagge dell’America del Nord, e da questa forte esperienza era uscita l’Atala. Benché poi sembrasse rassegnato a una vita più tranquilla nella diplomazia repubblicana (era in atto la svolta moderata del Buonaparte che portò al concordato del 1802, subito dopo del quale uscì il Génie du Christianisme), tuttavia non cessava l’inquietudine: gli assidui studi classici nella lunga composizione dei Martyrs gli fanno sognare l’antica Grecia, ed ecco questa singolare “idée d’un pèlerinage humaniste et d’un pèlerinage chrétien”, come dice il Mourot (p. 18). E gran soddisfazione vi troverà lo spirito d’avventura, perchè in Levante anche se non andrà in guerra come i Crociati, la prospettiva di dover superare ostacoli, affrontare pericoli, forse anche combattere degli occasionali nemici, nel 1806 è seria davvero (di molto sarebbero mutate le cose, noterà lo stesso Chateaubriand, già trent’anni dopo): tanto seria che non gli par di esagerare se parte da Parigi ben provvisto di armi e munizioni (p. 19).

   Ecco dunque quanta varietà d’ispirazioni in questo viaggio, e non tutte cristiane come si vede; l’irrequietezza romantica, propria di un individualismo vitalistico, vi ha gran parte. E ancor maggiore se aggiungiamo un altro motivo, non a caso non dichiarato nell’opera: l’appuntamento con la contessa di Noailles che  l’aspettava al ritorno, il quale per questa ragione fu fatto attraverso la Spagna dov’ella aveva detto che sarebbe andata. Non si tratta d’un semplice “rendez-vous amoureux” (più difficoltoso di così! quasi  un anno di attesa…) ma propriamente della “fiction romanesque du chevalier qui, au retour d’Orient, retrouve  sa dame avec de la gloire pour se faire aimer” (p. 19, così osserva acutamente il Mourot).

   Non pochi dubbi dunque nascono sulla religiosità di Chateaubriand. Nel suo animo io vedo un forte storicismo estetizzante: i luoghi che brama di conoscere sono il teatro dei grandi drammi della nostra civiltà, in Palestina come in Grecia,  a Roma, a Cartagine; la Redenzione soprannaturale come la guerra terrena tra la giustizia e la tirannide; Socrate, e  con lui i martiri cristiani, sono gli eredi non solo di Temistocle e Leonida, ma anche dei nobili eroi di Omero.  Mentre passa i Dardanelli sotto i tumuli creduti le tombe di Achille, di Patroclo e di Aiace, nel recitare testualmente i versi in cui Agamennone nel regno dei morti narra tale sepoltura (12), per l’esaltazione gli passa la febbre! (p. 209 s.). È lecito di vedervi una qualche anticipazione psicologica con quello che sarà poi l’incontro col sepolcro di Cristo? Tanto strettamente si legano i ricordi letterari e il sentimento religioso, con prevalenza dei primi, nell’espressione di questo scrittore.

   Tuttavia non mancano dei passi di profonda risonanza escatologica, specialmente quando ci troviamo in luoghi più segnati dal trascendente. Così in riva al Giordano: egli vi s’inginocchia coi suoi due domestici e l’interprete; questi canta l’Ave maris stella, gli altri rispondono “comme des matelots au terme de leur voyage” (p. 261 s.). È una catena di allegorie. Perchè la Madonna stella del mare? perché il viaggio al fiume sacro è come il viaggio dei marinai, che è come il viaggio (l’Itinerario!) della vita (13). Si ricorda l’autore cosa ha scritto molte pagine prima, proprio all’inizio del suo viaggio? Il giorno dopo la partenza da Trieste il mare era in burrasca: “l’homme dans ce moment devient religieux”; e sulla nave viene accesa una lampada davanti a un’ immagine della Madonna. “Notre capitaine autrichien commença une prière au milieu des torrents de pluie et des coups de tonnerre. Nous priâmes pour l’empereur François II, pour nous et pour  les mariniers sepolti in questo sacro mare. Les matelots, les uns debout et découverts, les autres prosternés sur des canons, répondaient au capitaine” (p. 59).

   Ancora: dalla valle di Giosafat (nota il luogo!) che è a levante di Gerusalemme, egli guarda il sole che tramonta dietro la città, “il dorait de ses derniers rayons ces amas de ruines”. Non sono solo le rovine dell’antico Tempio, anche se poi le nomina espressamente; ma anche è tutta la città santa, schiacciata sotto la vergogna ottomana (14). E qui legge il lamento del gran sacerdote Joad nell’Athalie: “Pleure, Jérusalem, pleure…” (15) (p. 331). Come poi, quasi a conclusione dei due capitoli su Gerusalemme, ricorda le lamentazioni del profeta Geremia: “Quomodo sedet sola civitas plena populo!… Plorans plorat in nocte, et lacrimae ejus in maxillis ejus” (16): esse “ont l’air d’avoir été composées à la vue de la moderne Jérusalem, tant elles peignent naturellement l’état de cette ville désolée” (p. 363). Siamo in un topos letterario, ma al nostro autore ciò non impedisce la commozione, anzi! l’abbiamo già veduto. Ricordate Scipione Emiliano che piange  sulle rovine di Cartagine recitando quei famosi versi? (17) Ἔσσεται ἦμαρ ὅτ’ ἄν ποτ’ ὀλώλῃ Ἴλιος ἱρή… (18) Lo ricorda in seguito lo stesso Chateaubriand, narrando il suo viaggio in Tunisia; e soggiunge un altro esempio ancora   (così, παράδειγμα, dice Plutarco) della caducità della cose umane: Caio Mario  anch’egli sulle rovine di Cartagine (19) (p. 418 s.).

   Infine con non minor commozione, anche se in tono sommesso, senza esaltazione lirica, senza citazioni antiche, conclude l’autore le pagine su Gerusalemme (p. 365 s.), prima di narrare brevemente la partenza. Nascosti tra quelle rovine sopravvivono con la forza della loro fede due piccoli popoli perseguitati. L’uno: i pochi e poveri religiosi cristiani che né rapine né maltrattamenti né minacce hanno forzato ad abbandonare il Sepolcro di Cristo: qui sembra riferirsi in particolare ai cattolici latini, cioè i frati francescani della Custodia di Terra Santa che l’hanno ospitato; ma sopra ha parlato con altrettanta ammirazione dei preti cristiani orientali “des différentes sectes” (p. 283), tra cui quelli  “demi-sauvages… n’ayant point d’autre abri que le Saint-Sépulcre”, la cui povertà e semplicità riporta ai bei tempi del Vangelo (p. 315). È questa la nuova Gerusalemme che esce dal deserto splendente di luce (20). L’altro popolo, che vive separato, disprezzato e tormentato nella stessa città, è quello che un tempo ne era padrone: “pour être frappé d’un étonnement surnaturel… il faut voir ces légitimes (21) maîtres de la Judée esclaves et étrangers dans leur propre pays” (p. 365 s.). Quali altri scrittori, ai tempi di Chateaubriand, hanno mai paragonato i dolori dei Cristiani a quelli degli Ebrei perseguitati (22)? E non  solo desta una ben comprensibile umana compassione, ma anche ha un profondo significato escatologico, codesta “rencontre de l’antique et de la nouvelle Jérusalem au pied du Calvaire”; dove il soprannaturale sta, secondo me, nel mysterium paolino della conversione degli Ebrei che avverrà prima della fine dei tempi (23). Con le parole “à la fin des siècles” si conclude questo passo e  tutta la trattazione su Gerusalemme, prima dei convenevoli dell’addio agli ospiti.

   Qualche osservazione, infine, sul carattere di questo viaggio e del viaggiatore. È in realtà una corsa rapidissima. Non si direbbe, poiché durò quasi un anno (ritorna a Parigi il 5 giugno 1807); ma bisogna considerare la lentezza dei mezzi di trasporto di allora e talvolta la difficoltà di trovarli: non sempre v’era pronto un imbarco, e allora bisognava aspettarlo anche per mesi, non esistendo ancora i servizi di linea (24): per questo, arrivato in Tunisia il 12 gennaio, è costretto a rimanervi sino al 9 marzo. Tolti questi tempi morti si riduce a poco il tempo delle soste, anche nei luoghi più ricchi di ricordi e monumenti, che aveva sempre sognato di vedere: quattro giorni ad Atene, cinque a Costantinopoli (donde, dice, “j’étais… bien aise de sortir”, come dalla capitale della tirannide e del servilismo), sei a Gerusalemme (dal 6 al 12 ottobre, dopo una breve puntata il 3). Tanto lo sollecitava la brama di sempre nuove avventure (25), la naturale instabilità del suo carattere; forse anche, come s’è detto, l’ansia di non mancare all’appuntamento con la bella.

    Queste le tappe principali: sbarcato a Modone dalla nave austriaca, traversa la Morea a cavallo, visita tra l’altro Sparta, Argo, Micene e Corinto e arriva ad Atene; dall’Attica con due piccole barche si reca a Zea (Τζιά, Κέως), una delle Cicladi, e quindi a Smirne; poi a Costantinopoli per via di terra e traversando il Mar di Marmara. Imbarcato su un veliero di pellegrini greci diretti a Gerusalemme, arriva in Terra Santa a Giaffa: oltre Gerusalemme e dintorni visita Betlemme, il Giordano e il Mar Morto. Ancora da Giaffa  comincia il viaggio di ritorno, per mare, ad Alessandria (e di qui, in parte per via fluviale, al Cairo e alle Piramidi); poi a Tunisi con mare cattivo (“notre navigation ne fut plus qu’une espèce de continuel naufrage de quarante-deux jours”! p. 392); visita di Cartagine e finalmente approdo a Gibilterra; in poche parole è sbrigato il viaggio per la Spagna. 

   Ma se non si ferma a considerar le date, codesta rapidità della corsa il lettore non l’avverte. Perché il racconto è arricchito, per così dire, da vivissime e attentissime descrizioni dei paesaggi naturali, dei monumenti antichi e medievali, delle persone che in questi ambienti vivono e delle loro mœurs; ed è ciò che è sempre stato ritenuto il maggior pregio dell’opera. Ma anche, purtroppo, è reso oltre modo pesante dall’inserimento di molte notizie storiche, geografiche, archeologiche sui vari luoghi attraversati (26). Ciò ha la sua ragione: essendo nato l’Itinerario anche dal desiderio di vedere tanti luoghi dov’era posta la scena dei Martiri, come dichiara l’autore in principio (p. 53), ha anche per questo assunta quella forma assai singolare di raccolta di appunti personali ma, insieme, di notizie precise che potessero in qualche maniera riuscire utili. “Rien ne le recommande au public que son exactitude” (p. 35), arriva a dire nella prefazione per le Opere complete, con una modestia che non direi molto sincera: l’esattezza è delle descrizioni, spesso, come ho detto, mirabili, ma anche dei dati di erudizione. Ed ecco l’esposizione interminabile della storia di Gerusalemme, per esempio, e di Cartagine, e di quest’ultima la discussione delle ipotesi sulla topografia dei porti antichi: cose che non fanno certo la delizia del normale lettore di narrativa (27).

   Ma Cartagine non è che gl’interessi solo per l’antichità, per le storie di Didone, Annibale, Giugurta, Genserico: come ultimo quadro storico gli si offre San Luigi che muore colà nella più sventurata, e l’ultima, delle Crociate. E qui l’intermezzo erudito si trasfigura nel racconto più  commosso; e l’autore ci dice com’è lieto  di finire il suo itinerario, il suo pellegrinaggio, là dove l’aveva finito il re santo (28) (p. 434).

   Dei vari segni caratteristici di Chateaubriand crociato spirituale, ne do qui solo due. Arrivando a cavallo da Giaffa, alla vista improvvisa di Gerusalemme  è preso da stupore; è lo stesso genere di sorpresa e commozione che riferiscono gli storici, due dei quali cita testualmente, e aggiunge i famosissimi versi del Tasso: “Ecco apparir Gierusalem si vede…” (29). Piangono di gioia i Crociati, e s’inginocchiano: sono alla montjoie, il luogo dove ha termine la sofferenza del cammino, dove “tutto, del vissuto del pellegrinaggio, trova liberazione” (30). L’altro segno è, a proposito del Tasso, la diligenza con cui cerca di riconoscere il campo di battaglia di quel poema da lui tanto amato (31) (ed è noto quanto fosse Torquato congeniale alla mentalità romantica): girando intorno alle mura indica i luoghi dei singoli scontri citando i versi che vi si riferiscono. Gran valore storico la cosa non può avere: conveniva piuttosto esaminare le fonti storiche del Tasso come Guglielmo di Tiro, anche perché è noto che il poeta non ha visto Gerusalemme; ma Chateaubriand non vi fa molto caso, per lui più importante della storia è la poesia.

   In verità sin dalla prima pagina dell’Itinerario, dichiarando decisamente la sua fede, s’era espressamente paragonato, come ho detto, e ad un antico pellegrino e ad un antico crociato, non senza far notare quanto poco conto tenesse delle opinioni correnti: “il peut paraître étrange aujourd’hui de parler de vœux et de pèlerinages; mais sur ce point je suis sans pudeur… (p. 53) (32): noi diremmo politicamente scorretto. Quella fede quant’era vera e profonda? è questione difficile, abbiamo visto. O meglio, non tocca al giudizio umano. Ma quanto alle opinioni allora correnti, si sa che andavano mutando. Il secolo che cominciava ribenedisse il medio evo cristiano, scomunicato dai vari razionalismi e illuminismi. Si tornava a venerare il sacro, ma col rischio di sconfinare, spinti dall’irrazionalistico individualismo romantico, in forme di sentimentalismo pseudo-mistico. Contro i pantofolai philosophes si esalta l’orgoglio cavalleresco, che porterà a rivivere in qualche modo il pathos eroico delle Crociate, ma anche a secolarizzarlo nei miti massonici dei vari risorgimenti nazionalistici (33).

   Quest’attualizzazione un poco sospetta dell’orgoglio cavalleresco e della tradizionale valeur française sembra spuntare qua e là in Chateaubriand. Ecco: in Terra Santa i Francesi sono molto rispettati perchè le antiche imprese di Goffredo di Buglione le hanno ripetute con l’Imperatore testè (34) (p. 241). Poi: in marcia per luoghi pericolosi, l’autore è accompagnato da una piccola scorta armata, procuratagli dai frati di Betlemme, con a capo il turco Ali Aga; di fronte alla minaccia di un numero superiore di supposti predoni arabi, “s’ils peuvent nous prendre, dit-il, à notre ordre et à nos vêtements pour des soldats chrétiens, ils n’oseront pas nous attaquer” (p. 263; corsivo testuale): quale elogio del valore delle nostre armi! Ancora: in un villaggio arabo l’autore vede dei fanciulli che con dei bastoni giocano a imitare delle esercitazioni militari, dicendo distintamente in francese: “En avant: Marche!” Si ferma sorpreso:  “il y aurait eu de quoi toucher un homme moins amoureux que moi de la gloire de sa patrie”. Dà ai bambini qualche soldino, ripetendo: “En avant: Marche!” e maliziosamente aggiunge: “Dieu le veut! Dieu le veut!” (p. 237). Persino nell’umorismo spunta il richiamo delle antiche glorie! 

   Bisogna tuttavia riconoscere che molti di più sono i momenti in cui non ha niente di tendenziosamente nazionalistico, quest’orgoglio cavalleresco di Chateaubriand, così confacente al carattere dell’uomo. Non è specificamente cristiano ma è del tutto umano. Abbiamo già visto che parte fieramente con armi e munizioni. Nè le burrasche  in mare nè certi brutti incontri in terra lo spaventano, almeno da quel che ci racconta.  A Gerusalemme, provocato senza motivo da due soldati ottomani ubriachi (e si prende anche una piattonata sul collo) se ne libera a mani nude con una reazione molto decisa (p. 315 s.).  Similmente sulla strada di Tripolizza, in Morea, aveva risposto, dimostrando una mira da film western, a due balordi spahi che gli avevano sparato sopra la testa: addirittura sfiora un baffo del provocatore (p. 78); come in casa dell’Aga (35) di Kircagach, in Anatolia, spavaldamente si ribella a un soldato che  voleva fargli deporre gli stivali e le armi (p. 195 s.). Ancora alla nazione, tuttavia, riconduce l’onore ricevuto, di cui pure manifestamente si compiace, quando alla fine del suo soggiorno a Gerusalemme  dal padre guardiano di Terra Santa è armato cavaliere del Santo Sepolcro: onore da lui nè sollecitato nè, dice, personalmente meritato: “Je n’étais pas sans doute sans reproche; mais tout Français peut se dire sans peur” (36) (p. 362).

   Della sincerità del suo senso dell’onor cavalleresco possiamo trovar conferma in questo, che non è per niente restio a riconoscere anche il valore altrui. Così per quanto non perda occasione di biasimare i Turchi che incontra (per oziosità, incapacità, prepotenza verso i deboli e servilismo verso i forti) (37), per il  deciso e accorto Ali Aga fa volentieri eccezione: il quale “était brave comme un janissaire de Mahomet II” (p. 264; cioè, mica come quelli di adesso!). Anche nella narrazione del passato non ha nessuna difficoltà a mettere sullo stesso piano il Saladino e Riccardo Cuor di Leone, invero celebrati già da una lunga tradizione come coppia di nemici leali e cavallereschi (“Richard, rival de gloire de Saladin”, p. 304). 

   E infine: la fraternità dei cavalieri d’ogni bandiera, dov’è che meglio si manifesta? s’intende, nel cavallo. Si veda allora con che partecipazione il nostro due volte cavaliere racconta la storia commovente della giumenta che muore per salvare il suo padrone. Si dirà che col nostro argomento non c’entra molto? ma almeno in nota bisogna metterla, è troppo bella (38).

3.  INTERMEZZO: PELLEGRINI E CROCIATI

Surge, illuminare, Jerusalem…Leva in circuitu oculos tuos, et vide: omnes isti congregati sunt, venerunt tibi; filii tui de longe venient… Quando conversa fuerit ad te multitudo maris,  fortitudo gentium venerit tibi   (V.T. Is. 60, 1-5)

    Sia lo scritto di Chateaubriand sia quello, che poi vedremo, di Chesterton consapevolmente si aggiungono, in una particolar maniera che quanto al primo abbiamo cercato di riconoscere, a una lunga serie di Itineraria terrae sanctae, iniziatasi nell’antichità cristiana (39): relazioni di pellegrinaggi compiuti, che  componevano a scopo di guida dei pellegrini futuri, con notizie più o men precise e veritiere, una sorta di geografia sacra dei luoghi toccati dal Salvatore e dagli Apostoli, ma anche dai re e dai profeti del Vecchio Testamento. Percorso escatologico, come abbiam detto, in quanto riviveva misticamente il cammino della vita terrena verso la vita eterna. Il ritorno  era secondario, in questa esperienza mistica: molte volte il pellegrino e a maggior ragione il crociato non tornavano (40),  perché alla patria eterna, significata da Gerusalemme centro del mondo (41), ci arrivavano non solo simbolicamente; chi poi era ritornato cercava volentieri di riprodurre quella realtà mistica nella sua patria terrena, ed ecco i Calvarii della Francia, i vari santuari delle sette chiese, il monte Carmelo moltiplicato nelle chiese carmelitane, la stessa pia pratica della via crucis. Non fu più Gerusalemme il centro del mondo quando cessarono le Crociate di essere evento storico: dal XIV al XVIII secolo; così si emancipava l’Occidente dall’Oriente originario (42).

   La gran differenza dell’itinerario di Terra Santa da tutti gli altri, sia di pellegrinaggio sia di crociata, sta nel fatto che alle varie difficoltà e pericoli anche grandi, eventualmente comuni a essi, se ne aggiungeva uno proprio e peculiare: la traversata del mare Mediterraneo. Chi combatteva in Ispagna o nei paesi baltici (gli altri due luoghi principali di Crociate) aveva almeno il vantaggio della contiguità territoriale: quindi maggiori disponibilità logistiche (43), possibilità di disegni strategici e praticabilità di manovre tattiche; ma oltre mare (così, Outremer, era chiamata comunemente la Terra santa) dopo il primo sforzo immane della conquista, si era costretti a una perenne guerra di difesa di una stretta fascia costiera in condizioni di costante inferiorità di forze, senz’altra via di possibili soccorsi che quella marittima (44). E traversare il mare, almeno nella brutta stagione, non era uno scherzo ancora ai primi dell’Ottocento in tempo di pace, come si è veduto. Queste condizioni spiegano la crescente importanza e prosperità delle città marinare italiane, che sole potevano fornire mezzi adeguati al bisogno; e la loro crescente influenza nell’andamento delle Crociate. D’altre parte la guerra con l’Islam non fu continua: vi furono anche lunghe parentesi di stretti rapporti commerciali, poiché i vari potentati musulmani, spesso in guerra tra loro, potevano avere interesse a buoni rapporti coi Franchi (45) per servirsi anch’essi degli scali siro-palestinesi, che per opera di quelle repubbliche marinare ebbero grande impulso. Forse fu questa la causa principale della sopravvivenza del dominio politico cristiano, pur sempre più stentato e ridotto, per quasi due secoli (46).

   Ma non solo questi aspetti nuovi di progresso tecnico della marina, di sviluppo economico e, di conseguenza,  di espansione politica aveva la traversata del mare, il passagium (47).Poiché “il passaggio è un importantissimo atto santificante; a maggior ragione se sono grandi le difficoltà della sua realizzazione fisica”, il mare presentando l’incombere della morte raffigura (ancora una volta, tanto al pellegrino quanto al crociato) come luogo iniziatico l’accesso a un altro stato (superiore) (48) e come luogo metafisico il passaggio da una vita all’altra, simboleggiato dalla leggenda di San Cristoforo traghettatore (49) e ovviamente dal rito del battesimo per immersione (in cui muori e rinasci rinnovato come Cristo) (50). Ed è naturale che col progredire della tecnica nautica e lo sviluppo del commercio questa solennità mistica del passaggio tenda a svanire, diventando il viaggio per mare sempre più comune; ed era già svanita del tutto, direi, nella crociata scomunicata del 1204, che non servì ad altro che agl’interessi di Venezia. Era già finito il medio evo, dirà Chesterton come vedremo (51): e in questo senso ha ben ragione. Ed era già il secondo medio evo, quello della splendida fioritura dopo l’infanzia primitiva dei secoli bui (52).

4.  CHESTERTON A GERUSALEMME

Vidi sanctam civitatem Jerusalem novam descendentem de caelo a Deo, paratam sicut sponsam ornatam viro suo. Et audivi vocem magnam de throno dicentem: Ecce tabernaculum Dei cum hominibus, et habitabit cum eis ( N.T. ap. 21, 2 – 5)

   Ed ecco un altro singolare pellegrino, più di un secolo dopo Chateaubriand. Non era più il viaggio in Levante periculosae  plenum opus aleae: mentre ai tempi del cavaliere francese era,  da forse due secoli, abbastanza raro che vi giungesse qualcuno dall’occidente (53) (l’ultimo, gli dissero i frati del santo Sepolcro, era stato un inglese l’anno prima), poi nell’Ottocento i pellegrinaggi hanno una ripresa crescente. Col tempo l’impero ottomano è diventato assai più  tollerante e aperto al mondo occidentale (54), anche perché le sue condizioni di debolezza politica e militare non gli permettono più un atteggiamento di violenta ostilità, e anzi dal punto di vista economico e finanziario gli fanno comodo gli investimenti delle potenze europee; con la Francia poi l’amicizia durava sin dal secolo XVI, e aveva permesso, tra l’altro, un minimo di sopravvivenza dei religiosi cattolici. Ma ora alla Custodia francescana di Terra Santa (55) si aggiungono via via, sotto la protezione degli stati europei, delle altre case religiose e chiese cattoliche e protestanti e persino, nel 1847, si ristabilisce il patriarcato latino di Gerusalemme (che era stato il segno più caratteristico, in campo ecclesiastico, della conquista crociata del 1099!).

   Niente di straordinario, dunque fa Gilbert Keith Chesterton (è soggettiva, cioè appartiene al suo carattere, la singolarità di quel pellegrinaggio). A Gerusalemme  ci arriva tranquillamente in treno, proveniente dall’Egitto; anzi per essere precisi il suo treno si ferma prima  (forse perché la ferrovia era stata danneggiata dalla guerra mondiale: siamo nel 1919)  e per l’ultimo tratto trova un passaggio su un’ambulanza dell’esercito inglese. Due anni prima gli Ottomani, benché appoggiati dai Tedeschi, avevano perduto per sempre Gerusalemme e il fronte si era stabilizzato più a nord; poi la guerra era finita e con la spartizione dell’impero ottomano restò l’Inghilterra, com’è noto, in Palestina e in Transgiordania come mandataria della Società delle Nazioni. Ma è solo perché non è più ottomana, ch’egli chiama Gerusalemme nuova, nel titolo del resoconto di quel viaggio? (56) Si prospetta con ciò  un diverso regime politico? No: o meglio, potrà forse codesto rimanere sottinteso, o se ne danno, come vedremo, dei vaghi accenni;  ma quel che conta è la nova Jerusalem come  simbolo biblico, di cui abbiam già parlato più volte, è la visione escatologica della città celeste, che in ogni vero pellegrino è presente agli occhi dell’anima (cf. p. 55). Tutte le descrizioni dei paesaggi naturali e della città sono intessute d’immagini simboliche, oniriche, a cominciare dal luogo pieno di bellissimi fiori spontanei in mezzo al deserto, per dove passa prima d’arrivare alla città: “mi trovavo in una terra nuova… in un sogno vivido e straordinariamente piacevole… per un momento ebbi davvero la sensazione d’essere giunto nel mio paese, o piuttosto di essere arrivato in quella patria al di là della patria per cui tutti proviamo nostalgia. Il suo ricordo perduto fa nascere al tempo stesso la fede e la fiaba… Solo in un fantastico racconto orientale si potrebbe immaginare un pellegrino o un viandante che scopre questo giardino nel deserto; io pensai al racconto più antico e al giardino da cui noi proveniamo”; e i passeri di quel posto immagina che siano “le anime dei passeri di Londra e delle città annerite  dal fumo, giunte nel luogo che accoglie tutti i passeri buoni” (p. 51 s.). E questo ricordare il suo paese ci svela la ragione d’un procedimento caratteristico delle sue descrizioni, dove s’incontrano similitudini bizzarre, incomprensibili per chi il paese dell’autore, l’Inghilterra, non l’ha mai visto (57): “Non appena entrai a piedi all’interno delle mura di Gerusalemme, ebbi la travolgente impressione di camminare nella città di Rye nel punto in cui si affaccia sulle pianeggianti praterie…” (p. 56). Sembra un espediente  per ravvivare l’attenzione del lettore (58) (che nella descrizione della città santa si aspetta chi sa che voli pindarici; e questo qua, invece, cosa sta dicendo?) ma è un riconoscere meglio, come rispecchiata nelle cose, la nostra anima. Infatti lo dichiara espressamente: “qui non affronterò i segreti storici che può svelare lo studio del luogo, bensì le associazioni storiche che desta la sua vista” (p. 59); ma codesta storia è la storia sacra, che si continua nelle Crociate: “qui il punto è che io vidi… una città gotica invece che babilonese; questo mi ricordò, se non specificamente la croce,  almeno i soldati che la presero su di sè” (p. 60). Ecco dunque anche un particolare che al lettore frettoloso non diceva niente, l’essere arrivato, come abbiamo visto, su un veicolo con la croce rossa, adesso ricorda anche a noi qualcosa che avevamo già letto in Chateaubriand, per cui non era un caso viaggiare sous la bannière de la croix. Conosceva Chesterton l’Itinéraire? non risulta: questa almeno non pare proprio una citazione, è qualcosa di più profondo.

   Il punto più estremo di questo gusto del paradosso spinto sino alla bizzarria dell’onirico, mi par che lo tocchi là dove  descrive un angolo di Gerusalemme che gli ricorda l’aspetto di certe città medievali europee (p. 71 ss.). Sin qui niente di straordinario; ma improvvisamente vede uscire da un arco gotico “una donna che indossava un alto copricapo bianco molto simile a quelli che abbiamo visto tutti in centinaia di dipinti raffiguranti tornei o feste di caccia”: è il cappello “simile a un alto cono ornato da un panneggio bianco”, noto anche ai bambini come proprio delle fate… Ma là apparteneva al costume tradizionale delle donne cristiane di Betlemme (59). E allora accadde un evento quasi incredibile: cominciò a nevicare, giorno e notte,  una nevicata potente che coprì tutta la città, nessun abitante si ricordava niente di simile (60); sepolti nella neve, vi furono anche dei morti, tanto la gente era impreparata. È come, dice, “la conclusione drammatica del mio sogno”. Viene in mente un luogo del discorso escatologico del Vangelo, il terribile “non fiat fuga vestra in hieme” (61). “La città santa levava il capo verso cieli invasi da nubi temporalesche, con indosso un copricapo bianco, simile a una figlia dei crociati”.

   L’altra arma segreta del crociato Chesterton, apologeta della fede (62) ma anche del buon senso, è l’ironia. Impareggiabile nel pescare le contraddizioni persino comiche di professoroni positivisti talvolta poco accorti, come quello che negava la divinità di Cristo con questo argomento: “se fosse Dio, saprebbe che non esiste la possessione diabolica” (al che commenta che “queste parole sollevano la questione non sulla divinità di Cristo,  ma sulla divinità stessa del critico”! p. 206), raggiunge il culmine, direi, quando trafigge l’ipocrisia dei buoni borghesi britannici che, inorriditi a Gerusalemme dalla folla di straccioni aspiranti guide turistiche che li circondano chiedendo la mancia (63), sono invece del tutto indifferenti, a Londra, all’assedio ben più insistente dei chiassosi cartelloni pubblicitari: dov’è come se ogni passante fosse circondato da tanti distinti signori che gli tendono il cappello a cilindro per chiedergli dei soldi. “’Usate il sapone Seraphic’ significa semplicemente: ‘Dateci dei soldi’”. Chi vi è purtroppo abituato non vede quanto è più indecorosa questa calca di gente ricca che chiede a gran voce altro denaro, “che un parapiglia di povere guide” (p. 85). Ed era ancora ben lontana l’ossessione pubblicitaria di oggi: non solo qualche scritta nelle grandi piazze! ancor più dunque è istruttiva oggi questa lettura, che cent’anni fa (64).

   Ma vi sono delle pagine ancor più sorprendenti (p. 189 ss.). Qui il ragionamento parte da Lidda, donde in una sosta del suo viaggio ferroviario era stato condotto in gita automobilistica a visitare, come abbiam visto, il giardino in  mezzo al deserto; e “queste rocce del deserto, simili alle ossa di un gigante sepolto, non sembrano spuntare dove dovrebbero, eppure spuntano e ci fanno inciampare” (attenzione! in ogni parola l’autore ci nasconde un tranello). Sarebbe Lidda secondo la tradizione il luogo di nascita di San Giorgio (65) (ma è una svista: si tratta del luogo del martirio). Ora immaginiamo, dice, per pura ipotesi che qualcuno, non credendo alla lotta leggendaria tra il santo e il drago, sia tuttavia disposto ad ammettere, come cosa di per sè non  assurda, che sia qui vissuto nel III secolo un pio soldato  Giorgio; ma che, fatte delle ricerche, di questo santo vi si trovino relativamente poche e deboli tracce, e invece molto cospicue ossa d’un mostro gigantesco, simile al drago leggendario. Rivelazione imprevista! Ha dimostrato l’improbabile ma non il probabile. E anche qui si chiede ogni lettore: ma questo dove vuole arrivare?

   Ecco, si pensi al duello che avvenne in quel deserto tra Gesù, di cui Giorgio è il servitore, e il diavolo, di cui il drago è simbolo. Duello improbabile per lo scetticismo degli scientisti ottocenteschi, per esempio Huxley (66), pur disposti a considerare eccellente l’ideale etico cristiano, essendo per loro probabile  solo un Cristo semplice, umanitario, tolstoiano; ridicolo credere ancora nei diavoli e negli esorcismi! (67). Ma poi, nella generazione del decadentismo irrazionalistico, “il sublime di Huxley è stato deriso mentre il ridicolo è stato considerato seriamente”; cioè “si è verificata una rivolta contro la morale cristiana, anche se non c’è stato un ritorno al misticismo cristiano; abbiamo assistito invece al ritorno del misticismo senza il cristianesimo”. Non parla solo di Nietzsche, o dello spiritismo e altre mode occultistiche,  ma anche del “dogma del subconscio” della psicanalisi, l’Acheronta movebo di Freud, inaccettabile dal vecchio razionalismo. “In altre parole, non abbiamo trovato san Giorgio, ma il drago”.   Così riflette discendendo quel pendio scosceso, cosperso di rocce strane, che porta dall’alta città santa alle città sepolte della pianura (68): Sodoma e Gomorra.  E pensa alle parole di Cristo: “videbam satanam sicut fulgur de caelo cadentem” (69), mentre in alto, lontana, la guglia della chiesa dell’Ascensione sembra la spada dell’Arcangelo.

   Ma come in quello di Chateaubriand erat quod tollere velles, così in questo singolarissimo itinerario dello scrittore inglese; e quanto è questi più profondo dell’altro, tanto meno siamo disposti a perdonarlo. Non già dell’apologia da lui fatta delle Crociate come difesa della fede (p. 235 ss.), che è del tutto coerente con ciò che abbiamo visto sinora, ma di una sua eccessiva tenerezza patriottica verso l’azione politica della Gran Bretagna in Terra Santa: non più giustificata, a mio parere, di quella di Chateaubriand per le imprese di soldats chrétiens ch’erano meri strumenti d’una frenesia imperialistica. No, non osa dire che nel 1917 Gerusalemme è stata riconquistata dai Crociati, ma vede come “necessità storica” che l’Europa ricuperi “queste antiche province romane”: “ ciò che alcuni occidentali non erano riusciti a fare per la fede, altri occidentali sono stati obbligati a fare anche senza di essa” (70) (p. 285). Sicché è stato inevitabile persino per la cinica diplomazia moderna, al seguito della scettica filosofia moderna, di riportare la Terra Santa “sotto la corona di Cuor di Leone e la croce di san Giorgio (71)” (p. 286). E non perde occasione di biasimare la Germania e il Kaiser da poco deposto (pp. 69 s. 238 ss. 270) al cui pomposo ingresso in Gerusalemme (in visita ufficiale come alleato del sultano, nel 1898) contrappone l’entrata del generale Allenby, a piedi e disarmato, dopo la conquista del 1917 (p. 286) (72): quasi che non rispondessero ambedue le esibizioni a una medesima Realpolitik benché di campo opposto.

   In verità se il conflitto palestinese ha avvelenato gran parte del secolo scorso e ancora non è risolto, ciò si deve proprio alla “necessità storica” (cioè a ben precisi interessi di diversi momenti contingenti) che portò alle tre contrastanti promesse fatte dal governo inglese, durante la grande guerra, intorno alla regione siro-palestinese: nel 1915 a Hussein sceriffo della Mecca perchè promovesse la rivolta generale degli Arabi contro il dominio ottomano, nel 1916 alla Francia riguardo alla Siria e al Libano, nel 1917 (attenzione: poco prima di prendere Gerusalemme!) agli Ebrei a cui si prometteva un (politicamente non definito) “focolare nazionale”. “Il Gabinetto inglese – scrive un grande artefice della vittoria – convinse gli Arabi ad insorgere dalla nostra parte facendo precise promesse di indipendenza per il dopoguerra… Sin da principio era chiaro che, se avessimo vinto la guerra, le nostre promesse si sarebbero ridotte a pezzi di carta, e se fossi stato un onesto consigliere, avrei detto agli Arabi di tornarsene a casa e di non mettere a repentaglio la loro vita per una simile prospettiva” (73).

   Già una faccenda che si andava sempre più complicando doveva ammonire le potenze, in particolare l’inglese, ad astenersi da tali bassezze di opportunismo politico: la questione del sionismo. Chesterton avverte bensì questa difficoltà e si sforza di discuterla in un capitolo che non è uno dei più chiari e convincenti del libro (l’ultimo: p. 391 ss.): sembra concludere che sarebbe il sionismo l’unica soluzione possibile del problema ebraico (74), ma non senza “l’idea di una sovranità generale della cristianità sulle terre dei musulmani e degli ebrei”. Ora, se per cristianità s’intende quella secolarizzata e massonica che aveva dominato la conferenza della pace di Parigi (o quale altra cristianità era rimasta (75)?), che fosse per essere imparziale, con tutto il potere economico e l’influenza politica che vi avevano gli Ebrei (a differenza, allora, dei musulmani), era pura illusione. La vera e urgente questione era se dovesse l’immigrazione continuare: e Chesterton par che risponda di sì. Non s’accorge ch’essa è il preludio d’una conquista del potere politico?

  Eppure lui stesso, a ragione, commenta sarcasticamente (p. 314 ss.) questa gaffe del sionista Weizmann (76): “agli arabi serve il nostro sapere, la nostra esperienza e il nostro denaro. Senza di noi cadranno in altre mani, saranno vittime degli squali”. “Questo è infatti – dice – proprio ciò che le persone temono come la peste o un terremoto: il loro sapere, la loro esperienza e il loro denaro… Gli uomini si barricano in casa o si  nascondono addirittura in cantina quando virtù simili si aggirano nei dintorni” (77). Delle virtù del capitalismo infatti, che cosa ne pensasse è noto (78).

   Antonio Antonioni

Note:

(1) Parlo della città vecchia, non dell’espansione urbana che, in seguito sopra tutto all’immigrazione ebraica iniziatasi nel secolo XIX, si è estesa sotto le mura ottomane che segnano ancora l’antico perimetro.

(2) Specialmente nell’enciclica In multiplicibus di Pio XII, del 24 ottobre 1948 (cf. Insegnamenti pontifici – 5. La pace internazionale, I, Roma 1958, nn. 667-675), nel radiomessaggio di Natale di quell’anno (ib., 702) e nell’enciclica Redemptoris nostri dell’11 aprile 1949 (ib., 705-715). Rinunciava così il Papato, ufficialmente anche se tacitamente, alla predicazione della riconquista cristiana dei luoghi santi, ben altre essendo dopo tanti secoli le tensioni politiche di questi tempi.

(3) Manuele secondo Paleologo, l’imperatore letterato bizantino citato a Ratisbona da Benedetto XVI,  in questo stesso sito.

(4) Chateaubriand in verità un po’ armato era, ma per altre ragioni, come si vedrà.

(5) Su questo aspetto escatologico si ritornerà più volte in seguito.

(6) A. Dupront, Il sacro, tr.it., Torino 1993, p. 30. Sulla spiritualità dei crociati e dei pellegrini cf. ib., p. 251 ss.

(7) Dal 1814, per investitura del re Luigi XVIII. Anche quello di cavaliere era titolo nobiliare ereditario; spettava al primogenito quello di conte (era Francesco Renato l’ultimo di dieci fratelli, quattro dei quali morti da piccoli).

(8) Ho usato l’edizione economica Garnier Flammarion: Chateaubriand, Itinéraire de Paris à Jérusalem, Paris 1968. Uscì in prima edizione nel 1811, e nel 1826 come primo volume delle Oeuvres complètes dell’autore; non mi risultano traduzioni italiane. All’edizione economica, utile anche per l’introduzione di J. Mourot, si riferiscono le citazioni di pagine che senz’altra indicazione farò in seguito.

(9) Merita tuttavia considerazione la recente popolarità di percorsi pedestri come il cammino di San Giacomo di Compostella o la via Francigena, tentativi di rivivere, anche da parte di non credenti, la dimensione originaria del pellegrinaggio.

(10) È naturale pensare, per esempio, all’Itinerarium mentis in Deum di S. Bonaventura, del 1259: “contemplazione di Dio e del mondo, che scorge il soggetto conoscente come un pellegrino che va verso una sempre più alta perfezione” (A. Dempf, Sacrum imperium, tr.it., Messina – Milano 1933, p. 308).

(11) Mentre Milano e Venezia appartenevano allora al regno napoleonico d’Italia (Venezia appena dall’anno precedente), Trieste era ancora sotto l’Austria; passerà nel 1809 nelle Provincie illiriche dell’impero francese, per tornare all’Austria dopo la caduta di Napoleone.

(12) Hom. Od. XXIV, 80-84. Subito dopo, altra recita di versi (Eur. Tr. 568 ss.) questa volta tradotti, passando dinnanzi al luogo dov’era posta dalla tradizione la città di Troia (la conferma verrà dagli scavi dello Schliemann molti decenni dopo).

(13) Sulla “lettura della vita come pellegrinaggio” cf. Dupront, op.cit., p. 42; “tra nascita e morte si ha, come per la crociata, un passaggio dalla terra della nascita a quella della promessa, dove si apre l’eternità” (ib.). 

(14) Come diceva sopra, p. 311: “…cet amas de décombres qu’on appelle une ville”. La descrizione della città di allora nella sua “désolation extraordinaire” è a p. 364. Dice il profeta: “Ecce civitas Sancti facta est deserta, Sion deserta facta est, Jerusalem desolata est” (V.T. Is. 64, 10).

(15)  J. Racine, Athalie, a. 3, sc. 7.

(16) V.T. lam. 1, 1 ss.

(17) Cf. Polyb. XXXVIII, 21; Diod. XXXII, 24; App. Lib. 132.

(18) Hom. Il. IV, 164 s. = VI, 448 s.

(19) Plut. Mar. 40.

(20) L’immagine è di Racine (l. cit.), in cui è palese il richiamo biblico: “…vidi sanctam civitatem Jerusalem novam…” (N.T. ap. 21, 2).

(21) Sarà un caso che “eredi legittimi della Palestina” avesse chiamato gli Ebrei Napoleone pochi anni prima, nella sua campagna d’Egitto? Lo fece in un proclama preparato nel 1799 in vista di una sperata ma non avvenuta entrata a Gerusalemme, e perciò allora non pubblicato.

(22) Non vi si veda però la minima violazione dell’ortodossia: gli Ebrei infatti “démeurent dans leur déplorable aveuglement”; siamo ben lontani dalle presenti tendenze sincretistiche. 

(23) N.T. Rom. 11, 23 ss.

(24) La prima linea marittima regolare fra Trieste e Costantinopoli fu inaugurata dal Lloyd Austriaco nel 1837: era servita da piroscafi.

(25) Ne dà lui stesso una splendida testimonianza, fra l’altro, dove rivela sinceramente la sua attrazione per la vita del marinaio: “Il y a dans la vie du marin quelque chose d’aventureux…” (p. 370); ma si legga tutto intero questo capoverso bellissimo.

(26) E persino minuzie scientifiche come l’analisi chimica dell’acqua del Mar Morto, e documenti personali come la lista delle spese fatte dall’autore in Terra Santa, nell’originale italiano compilato da un frate e dall’interprete Michele.

(27) Queste parentesi erudite non bastando all’autore, vi aggiunse una lunga introduzione storica e un’appendice di citazioni e d’interi testi inediti o rari: non a caso omesse nell’edizione economica (cf. p. 31).

(28) “Tutta la dinamica della crociata è una dinamica a senso unico. Nella crociata si parla ben poco dei ritorni. Secondo la sua pulsione vitale profonda, la crociata è un pellegrinaggio senza ritorno” (Dupront, op.cit., p. 275; cf. qui sopra, nota 13). Chi è arrivato alla meta dice con S. Pietro: “Domine, bonum est nos hic esse” (N.T. Matth. 17, 4).

(29) T. Tasso, Ger.lib., III, st. 4. Nella stanza seguente è la similitudine del navigante che “discopre il desiato suolo”, la quale palesa il significato escatologico (cf. pure nota 13, e nota 25).

(30) Dupront, op.cit., p. 46.

(31) “Poème des soldats” lo chiama a p. 358.

(32) Cf. p. 221: “obscur pèlerin”, osa seguire i passi di quei pellegrini illustri che furono i Crociati. Come si è visto, naviga verso la Terra santa “sous la bannière de la croix” (p. 207) coi pellegrini greci.

(33) Già il militarismo napoleonico poteva agire in questo senso, come si vedrà subito.

(34) Nel 1799, con la spedizione d’Egitto, peraltro fallita, che sconfinò anche in Palestina (cf. sopra, nota 21). Per la precisione era allora Napoleone soltanto Primo console della repubblica.

(35) Signorotto locale, aveva poteri civili e militari. Del paese di Gerico era signore il predetto Alì che accompagnò Chateaubriand.

(36) Com’è noto, le chevalier sans peur et sans reproches era detto il famoso Bajardo (Pietro Terrail de Bayard, 1476 -1524), che quasi personificò le virtù eroiche della cavalleria francese.

(37) Un solo esempio: l’avarizia incredibile di Abdallah pascià di Damasco, molto più ingegnoso del Verre ciceroniano nel vessare e depredare i suoi sudditi di Gerusalemme (p. 359 s.).  

(38) Parla di una razza araba molto eccellente. “On racontait, lorsque j’étais à Jérusalem, les prouesses d’une de ces cavales merveilleuses. Le Bédouin qui la montait, poursuivi par les sbires du gouverneur, s’était précipité avec elle du sommet des montagnes qui dominent Jéricho. La jument était descendue au gran galop, presque perpendiculairement, sans broncher, laissant les soldats dans l’admiration et l’épouvante de cette fuite. Mais la pauvre gazelle creva en entrant à Jéricho, et le Bédouin qui ne voulut pas l’abandonner, fut pris pleurant sur le corps de sa compagne” (p. 335).

(39) L’Itinerarium Burdigalense è del 330 circa. 

(40) Cf. sopra, nota 28.

(41) Sul concetto di centro del mondo cf. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, tr.it., Torino 1976, p. 386 ss.

(42) Cf. Dupront, op.cit., p. 304. Si è indicato il primo giubileo, celebrato com’è noto nel 1300, come l’evento più significativo dello “spostamento del baricentro immaginario della cristianità medievale che a lungo aveva visto Gerusalemme come centro del mondo (come mostrato da numerose carte geografiche dell’epoca) e che ora iniziava a riorientare il proprio sguardo in direzione della Roma dei papi” (L. Russo, I crociati in Terrasanta, Roma 2018, p. 184).

(43) Il che vale non solo pei combattenti: nella Spagna era importante il pellegrinaggio di S. Giacomo, a cui si accennò sopra (il quale  tuttavia non è senza rapporto con la crociata: è nota la connessione di questo santo con la guerra contro gli infedeli).

(44) L’unico confine terrestre con il mondo cristiano era quello settentrionale con l’impero bizantino, e per questa via passarono in effetti alcune Crociate: tre delle quattro spedizioni che confluirono nella prima, e poi quella del Barbarossa.  Avrebbe avuto ben altra importanza se vi fosse stata una vera partecipazione di Bisanzio a questo enorme sforzo dell’Occidente:  la quale mancò, e tanto più dopo il 1204, il vero grande disastro delle Crociate.

(45) Cioè gli occidentali, così detti perchè tra i Crociati prevalevano i Francesi sia per numero sia per la potenza militare della loro feudalità; ed era il francese la lingua koinè dell’Outremer. Ma il nome designa (ancor oggi, nel Levante: φράγκοι, frenkler) non tanto l’espressione linguistica, quanto l’obbedienza religiosa al cattolicesimo romano.

(46) A quel dominio infatti posero fine i Mamelucchi d’Egitto, che avevano evidentemente interesse a dirottare dalla Siria all’Egitto il traffico marittimo; tanto è vero che poi demolirono tutte le attrezzature portuali siro-palestinesi causando la decadenza economica della regione (cf. F. Cardini, Europa e Islam, Roma – Bari 2003, p. 98 s.).

(47) Sull’attraversamento del mare come compimento d’un rito di passaggio cf. Dupront, op.cit., p. 26. È un caso se questa parola, passagium, così poco latina s’impose al posto dei possibili sinonimi più corretti? Significava invero un’esperienza nuova e insolita alla chiusa e povera Europa che usciva dall’alto medio evo.

(48) Quello di chi ha compiuto un dovere straordinariamente importante e decisivo; chi l’ha fatto è detto dai Greci χατζῆς, la stessa parola arabo-turca che designa il pellegrino musulmano alla Mecca.

(49) Così Dupront, op.cit., p. 26 s. Si può aggiungere: anche dalla leggenda di S. Brandano, e altre. Dice la sequenza di S. Nicolò vescovo, altro santo navigatore, attribuita ad Adamo di S. Vittore (sec. XII): “…Nos qui sumus in hoc mundo Vitiorum in profundo Jam passi naufragia, Gloriose Nicolaë  Ad salutis portum trahe Ubi pax et gloria”. La traslazione della reliquia da Mira a Bari avvenne secondo la tradizione nel 1087, pochi anni prima delle Crociate.

(51) N.T. Rom. 6, 4 s. (cf. Eliade, op.cit., p. 202 s.).

(50) Su di questo, infatti, e su altre questioni dell’interpretazione storica delle Crociate, emergenti dalla lettura dei nostri due autori, spero di ritornare per quel che posso in un altro scritto.

(52) Quanto alla storia del diritto, ma il discorso val bene anche per l’economia e la civiltà tutta, si è distinta una prima parte del medio evo, in cui l’Europa occidentale è ridotta a condizione primitiva e naturalistica, e una seconda di grande rinascita (P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma – Bari 20105).

(53) Mentre, abbiamo visto, arrivavano in Terra Santa regolarmente i pellegrini greci e, si può presumere, anche gli altri Cristiani d’oriente.

(54) Tanto da non ostacolare neanche la colonizzazione sionista, che s’inizia nella seconda metà del secolo (la prima immigrazione nel 1882, finanziata dal barone Edmond de Rothschild, ma già vent’anni prima sir Moses Montefiore aveva costruito un primo sobborgo di Gerusalemme ad uso degli Ebrei del luogo: cf. sopra, nota 1).

(55) Esistente sin dal secolo XIV per concessione dei Mamelucchi contro un cospicuo pagamento fatto dal pio re di Napoli Roberto d’Angiò, terziario francescano. Ai Mamelucchi erano succeduti gli Ottomani nel 1517, nel dominio della Palestina come della Siria e dell’Egitto.

(56) G.K. Chesterton, La nuova Gerusalemme, tr.it., Torino 2011 (con note che molto opportunamente informano su personaggi e luoghi inglesi, oggetto di frequentissime allusioni dell’autore che dovevano riuscir famigliari ai suoi connazionali ma non così, ovviamente, a noi, e inoltre su fatti e personaggi storici; in fine bio-bibliografia); le citazioni di pagine, che saranno fatte nel testo, rimanderanno a quest’edizione. L’originale era uscito nel 1920. 

(57) Cf. nota prec.

(58) Come il καινὰ λέγειν  o παράδοξον di Arist. rhet. III, 1412 a; improvisum quiddam Cic. de or. III, 207; sententiae ex inopinato Quint. VIII, 5, 15.

(59) Ricevuto dall’uso delle donne franche al tempo delle Crociate, come sembra supporre Chesterton? o non sarà il contrario, cioè che derivi quell’uso occidentale  dall’influenza dell’Oriente? Non ho affatto la competenza per decidere (se importasse qualcosa tal decisione; ma qui siamo nel sogno e nella fiaba, non in un saggio etnografico).

(60) È vero che siamo all’altezza di 760 metri sul mare, ma la latitudine (31° 47’ N) è leggermente più a Sud di quella di Bengasi, e molto più di Tunisi e della Sicilia.

(61) N.T. Matth. 24, 20.

(62) Sarà finalmente battezzato cattolico nel 1922, a quarantotto anni d’età; ma già nel 1908 aveva pubblicato L’ortodossia e nel 1911 L’innocenza di  padre Brown, il primo della serie dedicata a questo prete cattolico investigatore.

(63) In questo almeno erano ben cambiate le cose dai tempi di Chateaubriand, quando di turisti o pellegrini occidentali, come s’è veduto, non ce n’erano proprio.

(64) Non mancano altri inquietanti presagi dell’odierno. Si paventa un futuro “sistema rappresentativo nella forma, ma finanziario nei fatti” (p. 135, con riferimento alla Palestina: oggi a tutto il mondo!). Quanto all’Inghilterra, si riferisce “la proposta dei legislatori di sottrarre alle famiglie qualunque bambino sospettato di ritardo mentale, patologia che essi stessi erano troppo ritardati per definire” (ib.). E parlando della legislazione del regno franco di Gerusalemme: “Il fatto che in numerosi di questi codici medievali i cittadini fossero chiamati servi non ha maggiore rilevanza del fatto che in molti moderni giornali capitalisti i servi siano ancora chiamati cittadini” (p. 276;  cf. Bollettino di dottrina sociale della Chiesa, XVI (2020), tutto il n. 3, dedicato ad Attualità del distributismo, dottrina politico-economica sostenuta con altri dal Chesterton).

(65) Dai Crociati fu diffuso in  occidente il culto del santo, ci ricorda l’autore. Com’è noto è il patrono dell’Inghilterra e di molte città, per esempio Ferrara. La croce rossa in campo bianco dello stemma di Genova è il vessillo di S. Giorgio, il medesimo adottato dai Crociati.

(66) T.H. Huxley (1825-1895)  biologo, divulgatore del darwinismo.

(67) Non per la prima volta affrontava l’argomento del “prendere semplicemente quello che c’è di buono nel Cristianesimo, quello che ha un valore” e lasciar perdere i dogmi e tutto quel che non ha più senso per l’uomo moderno: cf. G.K. Chesterton, L’ortodossia, tr.it., Brescia 19556, p. 180. 

(68) È impressionante la figura di p. 188, che mostra la valle del Giordano veduta dall’alto (i disegni che illustrano l’edizione italiana, dell’inglese Roberts, sono della prima metà dell’Ottocento, dunque più vicini  a Chateaubriand che a Chesterton: ma la realtà non era poi tanto mutata, ben diversamente stanno le cose oggi).

(69) N.T. Luc. 10, 18.

(70) Se vuol essere un argomento di valore  apologetico, non mi pare un gran che! Quanto al riuscire o non riuscire, già nel 1920 si potevano intravedere conseguenze disastrose, come si dirà subito.

(71) Cf. sopra, nota 65.

(72) Questa pagina di esaltazione lirica, che vorrebbe forse alludere al pio Goffredo che, vittorioso, rifiutò la corona regale, con tutta la simpatia per l’autore non riesco a leggerla senza disgusto.

(73) T.H. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, tr.it., Roma 1995, p. 19 s. (l’originale, scritto tra il 1919 e il 1920, uscì nel 1926). Imparzialmente ma con simile giudizio negativo sulla doppiezza (anzi triplicità!) di tal politica e sugli effetti rovinosi che necessariamente ne conseguirono, riassume i fatti A. Salvadori, Palestina 1915-1948, Roma 2003.

(74) Cioè quella particolare situazione di gravi difficoltà e conflitti coinvolgenti le comunità ebraiche, sempre più aggravatasi nel secolo XIX; gli scritti sul tema sono infiniti.  Ne parla come di un tragico dilemma tra assimilazione e isolamento E. Zolli, Antisemitismo, Cinisello Balsamo 2005, specialm. p. 262 ss. 

(75) L’ipocrisia del termine sta nel vago richiamo a una riconquista crociata. Alla quale poi, si è visto, il venerabile Pio XII implicitamente rinunciò (cf. sopra, nota 2) pur non sognandosi affatto di condannare le Crociate vere. Esortando ovviamente alla pacificazione di tutta la Palestina, per la quale non esprimeva proposte politiche, auspicava un regime internazionale solo per Gerusalemme e dintorni, e garanzie internazionali per l’accesso agli altri luoghi santi. 

(76) Capitata “nel mezzo di un discorso molto moderato e magnanimo sulla ‘politica sionista’”: e invero il Weizmann  si era sempre adoperato per un accordo con gli Arabi, sotto l’egida dell’Inghilterra (era cittadino inglese). Ne concluse uno il 3 gennaio 1919 a Londra, con l’emiro Feisal figlio del già ricordato Hussein, che prevedeva uno stato ebraico in Palestina, senza pregiudizio dei diritti dei locali, ma a condizione che fosse mantenuta la promessa di un grande stato arabo fatta a Hussein nel 1915. Che rimase, come dice Lawrence, un pezzo di carta.

(77) La conferma venne poi dai fatti: a partire dal 1930 i Palestinesi musulmani e cristiani cominciarono a essere sistematicamenti sfrattati dalle imprese ebraiche, non essendovi più bisogno di loro grazie all’aumento dell’immigrazione sionista permesso dall’amministrazione mandataria britannica (cf. per es. Salvadori, op.cit., p. 36).

(78) Cf. sopra, nota 64.

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